L’ultimo lavoro di Cosimo Caputo: Basi linguistiche della semiotica. Teoria e storia, (Milano-Udine, Mimesis, 2021)

Il grande pubblico, anche se non conosce tutti i romanzi di Umberto Eco, avrà sentito parlare de Il nome della rosa, forse il suo romanzo più famoso, sicuramente quello che lo ha reso celebre come romanziere; poco noto però è il fatto che dietro la narrativa echiana c’è una lunga e laboriosa riflessione iniziata in un’opera fondamentale del 1962, Opera aperta, incentrata sull’analisi delle varie forme del linguaggio a partire da quello letterario, percorso che porterà ad una sistematica e rigorosa riflessione sui segni, o semiotica. Proprio con Eco la semiotica è entrata a far parte del mondo accademico italiano quando a metà degli anni ’70 del secolo scorso fu istituita e gli fu affidata l’omonima cattedra presso la Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze.

Ma come ogni sapere ha una lunga storia e la stessa semiotica ha radici nella medicina, nella semeiotica medica, nella filosofia, nelle pratiche di previsione del futuro, nella magia, nella fisiognomica; è una disciplina giovane di duemila anni, come dice proprio Umberto Eco, perché nella tradizione della cultura occidentale è stata occultata, è vissuta nel corpo della logica, della medicina, della letteratura e solo nel Novecento ha raggiunto la sua autonomia disciplinare. E lentamente suoi oggetti di studio sono diventate le strutture dei testi letterari, le forme del teatro, della musica, della pubblicità, della musica, della conoscenza umana, della comunicazione degli animali non umani, della vita stessa; esiste infatti una biosemiotica, una zoosemiotica, una semiotica della letteratura, della pubblicità, del teatro, della musica, della scienza stessa e oggi anche una semiotica degli spazi urbani.

La semiotica contemporanea si è sviluppata intorno a due grandi paradigmi, o modelli teorici, che fanno capo alla filosofia e alla linguistica, rispettivamente il paradigma del filosofo americano Charles Sanders Peirce e quello del linguista svizzero Ferdinand de Saussure; accanto a questi due padri fondatori vanno ricordati l’americano Charles Morris, il danese Louis Hjelmslev, i russi Roman Jakobson e Jurji Lotman, il francese di origine russa Algirdas J. Greimas. In Italia, oltre a Eco, lo sviluppo della semiotica si deve al linguista Tullio De Mauro, al filosofo Ferruccio Rossi-Landi, agli estetologi Galvano della Volpe ed Emilio Garroni. Si tratta di una scienza che attraversa tutte le altre con un proprio e specifico ‘travaglio dei concetti’, per usare un’espressione di Federigo Enriques, che l’ha portata a prendere in esame le forme di comunicazione delle varie discipline, per cui si può parlare di semioepistemologia, semiolinguistica, semiodialettologia, semioetimologia, come fa Cosimo Caputo nel suo ultimo lavoro Basi linguistiche della semiotica. Teoria e storia, (Milano-Udine, Mimesis, 2021).

Cosimo Caputo,  espressione di quella che Ludovico Geymonat ha chiamato “Scuola meridionale di epistemologia” inaugurata da Bruno Widmar negli anni ’60-’70 del secolo scorso (Odysseo, 1 aprile 2021), conduce questo lavoro sul complesso universo della semiotica alla luce delle più recenti acquisizioni del pensiero contemporaneo dove ogni sapere, ogni disciplina ed ogni risultato conseguito vengono visti all’interno di una visione d’insieme e non più frammentata; come nei numerosi lavori precedenti, alcuni dei quali sono diventati imprescindibili come quelli soprattutto su  Hjelmslev (Hjelmslev e la semiotica, 2010) per capirne gli aspetti salienti, e su de Saussure (Tra Saussure e Hjelmslev, 2015; La scienza doppia del linguaggio. Dopo Chomsky, Saussure e Hjelmslev, 2019) e Garroni (Emilio Garroni e i fondamenti della semiotica, 2013)  apparsi anche in riviste straniere, come Semiotica. Journal of the International Association for Semiotic Studies, Cahiers Ferdinand de Saussure, fa sua, dal punto di vista metodologico, l’ottica storico-epistemologica con cui la semiotica viene interrogata nelle diverse pieghe concettuali che l’hanno contraddistinta come ambito disciplinare per scandagliarne le basi e vederne lo sviluppo, i diversi cambiamenti qualitativi nelle strutture di fondo, tipici poi di ogni vera scienza. Tale approccio deriva dal fatto, spesso non tenuto nella dovuta considerazione, che i veri progressi scientifici, come diceva Jean Piaget già negli anni ’50, avvengono au carrefour dei saperi, all’incrocio tra scienze dove ognuna si arricchisce dei contenuti cognitivi di un’altra con poi inserirli in un proprio quadro concettuale, percorso trovato come punto di riferimento nella “Scuola meridionale di epistemologia”.

Infatti, Caputo sottolinea a più riprese che solo la comprensione critica della “dimensione storica” di una disciplina, in questo caso della semiotica, le permette di conseguire una precisa “valenza epistemica”, dove un insieme teorico non può  prescindere dall’analisi della “tradizione scientifica” entro cui è venuta a situarsi col suo corredo concettuale fatto di trasformazione degli aspetti salienti e di inevitabile selezione di aspetti non pertinenti; così tale duplice “passo teorico e storico” ci fa entrare nel vivo di questa disciplina con le sue “basi linguistiche” che poi vengono ritenute “basi epistemologiche” vere e proprie, per arrivare a delineare un campo specifico costituito dalla semiolinguistica  e non più un  vago “campo semiotico”, dove acquista un valore strategico il “segno verbale” per poter meglio capire la natura degli altri segni verbali e non. In tal modo, dialogando criticamente tra loro ed incrociandosi, la semiotica e la linguistica mettono a reciproca disposizione i propri contenuti dove l’analisi del segno permette alla linguistica di darsi una “costituzione semiotica” e alla stessa semiotica di liberarsi da un suo generico “campo” e acquistare una più specifica consistenza nel presentarsi come semiotica linguistica col duplice obiettivo di aver evitato una “reductio ad unum dell’una all’altra”.

Così, Caputo nei vari capitoli si interroga sulla “dualità semiolinguistica”, sulla “scienza doppia del linguaggio” che “non è una mera somma aritmetica bensì  un uno formato da due”, sulla scia delle importanti indicazioni di Saussure che già aveva sottolineato con forza non comune la “complessità ed eterogeneità degli eventi linguistici”; il linguaggio stesso non può essere considerato un oggetto stabile e la stessa linguistica ha dentro di sé più punti di vista in quanto presenta, come diceva lo studioso ginevrino, “cinque o sei verità fondamentali” talmente legate che partendo da una qualunque di loro si arriverà a tutte le altre. Il linguaggio ha una doppia anima e tale “dimensione duale” rende possibile una scienza doppia del linguaggio, premessa indispensabile per Caputo per arrivare alla semiolinguistica, il cui gioco epistemologico consiste nel tenere “insieme il sistema e il processo, la forma e la sostanza che nella loro interazione producono la significazione, ovvero l’articolazione e la conoscenza del senso” con la presa d’atto che esso senso “si organizza per differenze” dove il semeiotikón acquista senso solo “se incarnato nelle differenze delle lingue e delle varie forme semiotiche non verbali”.

Alla luce di tali presupposti vengono affrontati temi relativi alla onniformatività o onnipotenza semiotica delle lingue, alla stratificazione e all’arbitrarietà del segno, ai rapporti tra dialettologia e semiotica attraverso l’analisi dei contributi dati da diverse tradizioni di ricerca in tale ambito, da Hjelmslev a De Mauro, dal Circolo linguistico di Copenaghen alla Scuola linguistica romana. I vari capitoli chiariscono il carattere stratificato e aperto del segno, la substance glissante del linguaggio, il suo carattere mobile, per usare un’espressione de Gaston Bachelard. In tal modo si prendono le distanze dalla tradizionale logica del linguaggio, con la centralità assegnata, sulla scia di Hjelmslev, al ruolo del sublogico dove “natura e cultura” si incontrano col dare al segno una struttura “dialogica e partecipativa”, e dove il legame tra significante e significato è determinato da “vincoli storico-naturali che condizionano le comunità dei parlanti” da cui scaturiscono le diverse lingue e le varie semiotiche. Alla luce della non comune lettura dei fondamentali contributi hjemlsleviani, Caputo perviene così, analogamente a come sta avvenendo in altri settori del pensiero epistemologico odierno, ad una visione non analitica della scienza ed in questo caso di quella del linguaggio,  mettendo in evidenza da una parte il fatto che ”la materia semiotica è il mondo modellato dall’umano”;  dall’altra, come ad esempio nell’epistemologia della complessità, sottolinea il carattere dinamico, “il polo intensivo, il relatum sintetico“, o “costellazione di combinazione” come “intelaiatura di interazioni mobili” fatta di dipendenze e di interdipendenze.

All’interno di tale percorso, molto interessante si rivela poi il capitolo dedicato da Caputo alla questione semiotica del dialetto, invitando la dialettologia a “ri-vedere, a ri-pensare il suo oggetto nella sua materialità”. In tal modo la variazione dialettale viene legata alle “forme di vita”, dove “ogni parlare, ogni modo di comunicare, oppure ogni forma di semiosi, non è un prius ma un posterius, ovvero una risposta del soggetto… alle sollecitazioni dell’ambiente fisico e socio-culturale”: il dialetto, articolazione della facoltà di linguaggio, e la dialettalità appartengono alla “materialità del senso”, al sentimento della lingua. Il dialetto è la lingua degli affetti o delle confidenze, della non ufficialità linguistica, della “sensificazione” o del sapere le parole nel senso del sapere latino, in quanto immersi nella esistenzialità della vita, non riducibile a schemi puramente astratti.

Non si può non fare nostro il punto di arrivo del percorso di Cosimo Caputo che, partendo da studi sui paradigmi linguistici del ‘900, insiste molto opportunamente sulla necessità di un esprit epistemologico rivolto a criticare la “Grande frammentazione”, ancora in certi ambienti operante con le sue semplicistiche e anacronistiche implicazioni; e a partire dallo stesso linguaggio, che come diceva Gaston Bachelard non è mai neutrale, siamo tutti invitati a dare un contributo in tal senso e a riempire di sempre nuovi contenuti vitali il suo “relatum sintetico”.


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Mario Castellana, già docente di Filosofia della scienza presso l’Università del Salento e di Introduzione generale alla filosofia presso la Facoltà Teologica Pugliese di Bari, è da anni impegnato nel valorizzare la dimensione culturale del pensiero scientifico attraverso l’analisi di alcune figure della filosofia della scienza francese ed italiana del ‘900. Oltre ad essere autore di diverse monografie e di diversi saggi su tali figure, ha allargato i suoi interessi ai rapporti fra scienza e fede, scienza ed etica, scienza e democrazia, al ruolo di alcune figure femminili nel pensiero contemporaneo come Simone Weil e Hélène Metzger. Collaboratore della storica rivista francese "Revue de synthèse", è attualmente direttore scientifico di "Idee", rivista di filosofia e scienze dell’uomo nonché direttore della Collana Internazionale "Pensée des sciences", Pensa Multimedia, Lecce; come nello spirito di "Odysseo" è un umile navigatore nelle acque sempre più insicure della conoscenza.