“Credo fortemente nell’innamoramento delle culture anche se in realtà in Italia vediamo che per esempio tutto questo è rifiutato…”
Il Maestro non c’è più. Bernardo Bertolucci si è spento all’età di 77 anni, dopo una vita trascorsa a regalare pennellate artistiche, capolavori cinematografici come “Novecento”, “Ultimo tango a Parigi” e “L’ultimo Imperatore”, pellicola che, nel 1987, gli valse ben nove Premi Oscar.
Nato nel 1941 a Parma e “vicino di casa” di Giuseppe Verdi, sarà influenzato dal celebre compaesano soprattutto nella scelta di tematiche inerenti l’amore e la morte, alla stregua dei più classici melodrammi in odore di romanticismo. A cambiarlo, però, è l’incontro con Pier Paolo Pasolini, pietra miliare per la sua prima opera “Accattone” e per il primo incarico da regista, nel 1963, ne “La Commare Secca“.
Si inserisce, prepotentemente, nel milieu intellettuale italiano con “Prima della rivoluzione”, collaborando con Dario Argento e Sergio Leone. Proprio al papà degli spaghetti western deve la sceneggiatura di “C’era una volta il West”, dove impara ad utilizzare la macchina da presa come uno strumento per una visuale privilegiata di un rito collettivo.
“Amavo e amo la libertà e sono sempre stato contro ogni forma di censura. Allora pensavo che il mio destino fosse accomunato a quello di Pasolini e mi sentivo un eroe maledetto. Oggi la vedo diversamente, ma se il mio film ha qualche merito, ci conto anche quello di aver infranto tabù anacronistici“. Il tabù in questione è legato alla Nouvelle Vague di “Ultimo tango a Parigi”, film scabroso e controverso con protagonisti Marlon Brando e Maria Schneider.
“Il tè nel deserto” e “Piccolo Buddha” fanno da prodromi a “The Dreamers” e “Io e Te” (tratto dal romanzo di Nicolò Ammanniti) lungometraggi rispettivamente del 2003 e del 2012, il suo canto del cigno, illuminazione utopistica che Bertolucci ha definito così: “Io continuo ad avere l’illusione che un giorno le culture si innamoreranno una dell’altra. Credo fortemente nell’innamoramento delle culture anche se in realtà in Italia vediamo che per esempio tutto questo è rifiutato. Lo vediamo con l’aumento della xenofobia”.
Come dargli torto?
L’aumento di quella che può sembrare xenofobia in realtà è solo un momento passeggero, non so quanto possa durare ma è il sintomo di un disagio generale che affonda le sue radici in una globalizzazione imposta dal potere economico e non nata appunto, dall’innamoramento delle culture.
Da ragazzo sognavo viaggi nei paesi mediorentali, poi gli USA me li hanno violentati.