È uno degli avvenimenti culturali più importanti dell’anno per la nostra nazione, una mostra che ha avuto una enorme risonanza, quella organizzata a Bologna dall’8 febbraio al 25 maggio 2014, avente come tema il periodo d’oro dell’arte olandese, il XVII secolo.
Per la prima volta in Italia è giunta una delle opere più note al mondo, La ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer, insieme a quadri di artisti del calibro di Rembrandt, Van Honthorst e altri maestri dell’epoca.
L’esposizione, di altissimo valore, è stata largamente pubblicizzata sui media e sta avendo un ottimo riscontro di pubblico, con più di duecentomila visitatori (dati di aprile) e una percentuale di turisti stranieri che si attesta a poco meno del 10% del totale. Le stime finali saranno sicuramente più alte per entrambi i dati. Tutto bene. quindi? No, anzi. Perché Leone Sibani, presidente della Fondazione Carisbo, finanziatrice dell’evento, ha dichiarato in un’intervista che, a meno che non si arrivi al mezzo milione di visitatori, la Fondazione andrà in perdita e che in futuro la stessa erogherà sempre meno denaro per iniziative simili.
Un’affermazione, questa, che non può non lasciare quantomeno perplessi: perché se è vero che la situazione storico-economica in cui ci troviamo vede tutto l’Occidente arrancare (e l’Italia in particolar modo) e stringere la cinghia tagliando sulle spese, in particolare quelle “non produttive”, non si capisce come ad applicare concetti strettamente matematici di perdita e pareggio sia il presidente di una Fondazione che si propone esplicitamente come scopo la promozione di eventi, progetti e studi volti a favorire la crescita del territorio. Come può, in virtù di questo, limitarsi al conto di incassi e spese e non analizzare le ricadute indirette di un evento di tale portata? La promozione del territorio non può non tener conto dell’indotto generato dalla mostra, cioè dell’impatto positivo sulle attività “collaterali” di ristorazione, del turismo, del commercio. Inoltre, il marchio Carisbo, con il patrocinio di una mostra unica nel suo genere, ha innegabilmente ricevuto grande visibilità e prestigio: valori questi non immediatamente quantificabili, ma sicuramente dalle ricadute positive.
Ancora una volta, quindi, polemiche miopi sulle attività culturali del Belpaese.
Sembra di risentire la voce di qualche politico che tempo fa dichiarava “con la cultura non si mangia”, “provate a farvi un panino con la Divina Commedia” e amenità simili. Perché ciclicamente ci troviamo di fronte a discorsi simili?
Perché, dispiace dirlo, da anni la classe dirigente italiana non guarda molto oltre il proprio naso: si favoriscono interventi per le grandi imprese (e se ne stritolano altre con tasse e pagamenti dalle PA che non arrivano mai, ma questo è un altro discorso) mentre arte e cultura vengono “tagliate” costantemente; il risultato è un Paese che perde punti contro la concorrenza agguerrita di nuove potenze economiche e non sfrutta, quando non lascia invece apertamente in rovina, i suoi immensi tesori culturali. Nessuno stato al mondo può vantare una concentrazione di beni culturali anche solo lontanamente paragonabile a quella italiana e qualunque nazione con un minimo di raziocinio metterebbe al centro di ogni politica la valorizzazione e lo sfruttamento di questo enorme patrimonio. Provate a immaginare la Germania con un unicum artistico come Pompei : altro che crolli, ne farebbe la meta più ambita d’Europa!
Non si tratta di banale anti-italianità, ma dell’assoluta convinzione che sia necessario un cambio di rotta radicale nei palazzi di potere. Con l’industria della cultura si svilupperebbero i settori dei servizi corollari, si creerebbero numerosi posti di lavoro e molti sarebbero appannaggio dei giovani.
Tra delocalizzazioni, gap tecnologico, congiunzioni economiche sfavorevoli, è giunto il tempo di ripensare il sistema economico e culturale, di smetterla di fare orecchie di mercante di fronte alle tante richieste in questo senso, di fare dell’Italia il centro mondiale dell’arte, com’era qualche secolo fa.