Un film di Andrea Segre con Paolo Pierobon e Giuseppe Battiston

L’ordine delle cose, presentato alla Mostra Internazionale di Venezia e in questi giorni proiettato nelle sale cinematografiche, si incentra su un tema di scottante, dibattuta e controversa attualità: il fenomeno dell’immigrazione, su cui si esercitano, giorno dopo giorno, la spicciola polemica politica e le varie testate giornalistiche che sfruttano, enfatizzandoli, lo stato di precarietà, non solo psicologica, degli Italiani e le loro paure. Il film, girato prima degli accordi internazionali tra il nostro governo e le autorità della Libia per il controllo dei migranti da parte della guardia costiera del Paese africano, profeticamente anticipa quanto si sta verificando, configurandosi come un tragico documentario con spiragli pessimistici sui futuri scenari.

Il protagonista è Corrado Rinaldi, ex poliziotto diventato un alto funzionario del Ministero degli Interni, specializzato in missioni internazionali contro l’immigrazione clandestina; un uomo preciso, ordinato,  attento e rigoroso sia nella vita privata che nel suo lavoro. Apparentemente rigido e privo di slanci, è in realtà profondamente legato alla moglie, oggetto costante delle sue attenzioni, e ai due figli, che segue nella quotidianità della loro vita, anche se è lontano. Quanto al lavoro, gli viene affidato il delicato e difficile compito di porre un freno agli imbarchi illegali degli immigrati, gestiti da scafisti senza scrupoli che lucrano sulla disperazione dei profughi, promuovendo trattative con i Libici affinché le loro navi blocchino i barconi dei trafficanti prima che raggiungano le acque internazionali ed arrivino in Italia.

Corrado deve muoversi con cautela e circospezione tra la pluralità frastagliata, composita e rissosa dei poteri forti operanti nella Libia post-Gheddafi, senza perdere di vista gli interessi italiani ed europei. Lo fa con successo osservando le regole della praticata ed amata scherma: saper attaccare, ma anche saper ritrarsi al momento giusto per poter assestare la stoccata vincente.  Incontra, infatti, connazionali e colleghi di altri paesi, visita i centri di detenzione, veri e propri lager, dialoga con gli arroganti capitribù e rais dell’interno, nonché con gli ufficiali della guardia costiera di Tripoli, ottenendo precise garanzie in ordine all’obiettivo che persegue.

Nel contesto dell’azione diplomatica si inserisce, tuttavia, un imprevisto che lo induce a rivedere i suoi sistemi organizzativi ed i suoi parametri valoriali: durante la visita ad un centro di “raccolta” una giovane donna somala, Swada, gli chiede di aiutarla a fuggire perché possa raggiungere il marito in Finlandia. Se, fino a questo momento, la missione di Corrado, si è focalizzata sui numeri e sui flussi disumanizzanti, piuttosto che sul vissuto e sulle speranze dei singoli, ora si apre ai risvolti umani e personali di una specifica storia, sicché la sua coscienza è lacerata dall’intimo dissidio tra il dovere di proseguire nel suo lavoro e l’istinto di aiutare una persona in difficoltà. In altri termini il regista proietta sulla personalità di Corrado la dicotomia tra due mondi, il nostro e l’altro, e l’assurdità secondo cui, nella mentalità comune, esiste una profonda differenza tra i due.

E così il funzionario borghese, che si potrebbe in teoria considerare un uomo di destra, portato com’è a mettere ordine nella vita privata e lavorativa, lungi dall’essere una figura piatta e sempre uguale a se stessa, rivela una personalità sfaccettata che si attiene alle direttive del suo governo, senza trascurare le norme che regolano i diritti umani.

L’epilogo della storia, condotta con il ritmo serrato del thriller, con una scrittura limpida e priva di sbavature, con un rigore quasi documentaristico, non indulge a soluzioni strappalacrime, romanzesche e retoriche da soap-opera: la scelta di Corrado tra la ragion di stato e l’attenzione all’umano è tale che in essa un elemento implichi la sofferenza per l’esclusione dell’altro.


Articolo precedenteIl voto tedesco e le poche alternative della Germania
Articolo successivoL’alba italiana della Notte degli Oscar
Sono Rosa Del Giudice, già docente di italiano e latino presso il Liceo Scientifico "R. Nuzzi" di Andria dal 1969/70 al 1998/99 e, ancor prima, docente di italiano e storia presso l'ITIS "Sen. Jannuzzi" di Andria. Attualmente sono la rappresentante legale del Centro di Orientamento "don Bosco", che dal 1994 è un'Agenzia Educativa molto presente sul territorio andriese in quanto si occupa di temi pedagogici ad ampio spettro, promuovendo ed organizzando, prioritariamente, attività in due ambiti: l'orientamento scolastico nelle ultime classi delle secondarie di 1° grado, finalizzato a ridurre il fenomeno della dispersione; la formazione dei docenti, che la L.107 su "La Buona Scuola" opportunamente considera come obbligatoria, permanente e strutturale. Non lesino il mio contributo all'interno di Associazioni che si battono per il perseguimento del bene comune ed il riconoscimento dei diritti a quanti vivono nelle periferie esistenziali del mondo.