«…di che stupor dovea esser compiuto! 
Certo tra esso e ‘l gaudio mi facea 
libito non udire e starmi muto»

(Paradiso XXXI, vv.40-42)

«Ragazzi, ricordate, quale che sarà la vostra futura età anagrafica, finché manterrete la capacità di stupirvi, sarete giovani…»: sono parole rivolteci dalla mia amata docente di lettere ai tempi del liceo e credo di averne già scritto da qualche parte, ma non ho trovato un modo migliore per introdurre il commento del trentunesimo del Paradiso, che mi pare essere proprio il canto dello stupore.

La mia prof, ora rosa tra le rose, ci esortava a non invecchiare nell’animo, a coltivare la letizia, a non intristirci nel mero e duro quotidiano. Mi ricordo che, alle sue parole, mimai col braccio il gesto di una caduta rovinosa e l’accompagnai con un “puff!” a indicare lo schianto. Lei mi sorrise e il suo sorriso oggi mi appare ancora come quello che Beatrice rivolge a Dante a mo’ di estremo saluto.

Sì, perché in questo canto, dopo aver narrato del tripudio degli angeli che, come sciame di api, vola continuamente da Dio alla candida rosa dei beati per impollinarla di pace, dopo aver scoperto un sene (v.59), un anziano, vestito di bianco, che si affianca a Dante e gli mostra Beatrice tornata a sedersi nel suo scranno tra i beati, dopo che Dante ha rivolto all’amata la più bella espressione di riconoscenza che un uomo possa rivolgere ad una donna – sì, lo so, Beatrice è allegoria della teologia, ma è pur sempre un’innamorata cantata dall’innamorato – , dopo che abbiamo appreso che quel sene non è altro che san Bernardo, il mistico cantore della Madonna, terza e ultima guida di Dante fino alla visione finale, dopo che questi ha spiegato al poeta che il vedere Dio in vita è concesso a pochissimi, e a Dante come a novello San Paolo, e solo per intercessione di Maria, dopo questo turbinio di rivelazioni, il sapore che resta al palato è quello dello stupore, della meraviglia, della gratitudine per la bellezza gratuitamente donata, gratuitamente accolta.

E il poeta chiosa:

«…di che stupor dovea esser compiuto!
Certo tra esso e ‘l gaudio mi facea
libito non udire e starmi muto»

(Paradiso XXXI, vv.40-42)

Ovvero: di quale stupore dovevo essere colmo! Certo che, tra stupore e gaudio del cuore, mi veniva voglia di non ascoltare altro e di restare in silenzio.

Diletto lettore, adorata lettrice, ho cercato fin qui di ripercorrere con te il più divino dei poemi nel più umano degli approcci. Non l’ho fatto per vile ruffianeria, non era il mio un basso tentativo di accattivarmi la tua attenzione. Era piuttosto una scelta di campo: con Simone Weil, la mia maestra, sono convinto che la verità sia tale solo se traducibile in tutte le latitudini e per tutte le lingue, senza distinzione di credo e culture, ideologie e religioni. Se confessione di fede è la mia, lo è nel senso più universale possibile e nel “più laico” dei modi, come ora si usa ripetere, il più delle volte a sproposito.

E io credo: se in Dante c’è un seme divino, quel seme deve essere visibile a tutti, credenti e non, da tutti intelletto, per tutti spiegato e da tutti gustato. Tra gioia e stupore, silenzio e incanto. In riconoscente ammirazione. Punto.

Ora che la “visione” si appresta, io credo di poter dire: quel “seme” è la capacità di coltivare stupore; è l’ostinata voglia di credere a dispetto di ogni esilio e ogni dura privazione; è la luce oltre la selva oscura ed anche al centro di essa; è la capacità di salire sempre, annaspando e aggrappandosi agli spuntoni di roccia, arrampicandosi anche quando non si hanno più forze per muovere un sol passo; è lasciarsi attrarre dall’alto, leggeri, al di là di ogni merito e in ogni proprio demerito; è credere che ci sia sempre un passo, una via, uno snodo, un’alba, un orizzonte di oriafiamma (v.127) che accende l’aurora e sconfigge la notte.

Ecco, io credo. Questo io credo. Altro non so dire.

Che sia colmo di  stupore il tuo cammino: oltre e attraverso la notte.

Franklin Pierce Adams: «Lo stupore, piuttosto che il dubbio, è la fonte della conoscenza».

André Breton: «Il meraviglioso è sempre bello, anzi, solo il meraviglioso è bello».

Don Pino Pirri: «Non bastano bei panorami. Bisogna anche saper guardare. Oltre la Bellezza, ė necessario lo Stupore».


FonteDisegno riprodotto da Eich da foto pixabay.com
Articolo precedenteI mostri che abbiamo dentro
Articolo successivoEpilessia: Casa Sollievo pioniere di un nuovo trattamento
La mia fortuna? Il dono di tanto amore che, senza meriti, ricevo e, in minima parte, provo a restituire. Conscio del limite, certo della mia ignoranza, non sono mai in pace. Vivo tormentato da desideri, sempre e comunque: di imparare, di vedere, di sentire; di viaggiare, di leggere, di esperire. Di gustare. Di stringere. Di abbracciare. Un po’ come Odysseo, più invecchio e più ho sete e fame insaziabili, che mi spingono a correre, consapevole che c’è troppo da scoprire e troppo poco tempo per farlo. Il Tutto mi asseta. Amo la terra di Nessuno: quella che pochi frequentano, quella esplorata dall’eroe di Omero, ma anche di Dante e di Saba. Essere il Direttore di "Odysseo"? Un onore che nemmeno in sogno avrei osato immaginare...