La drammatica situazione che si è venuta a creare in Libia rischia di coinvolgere tutta l'area mediterranea, già teatro di paurosi conflitti.

In questi giorni sul Mediterraneo soffiano sempre più forti pericolosi venti di guerra. La drammatica situazione che si è venuta a creare in Libia rischia di coinvolgere tutta l’area mediterranea, già teatro di paurosi conflitti.

Siamo convinti che non potrà essere un nuovo intervento militare a riportare la pace in Libia e la stabilità nel Mediterraneo: la guerra aumenta l’instabilità e allontana le soluzioni, oltre a provocare morti e sopraffazioni tribali. A questo si aggiunga il grosso pericolo per l’Egitto e la Tunisia, che potrebbero essere coinvolti nei flussi di profughi che dalla Libia rischierebbero di riversarsi sui propri territori.

Annientare l’Isis lascerebbe ancora aperta la partita per i futuri assetti della regione, dove le potenze locali si affiancano a Washington e Mosca, tutti con interessi e obiettivi diversi e inconciliabili. Non sarebbe la prima volta in cui si concederebbero spazi e possibilità a un nemico ritenuto meno pericoloso, perché non si è in grado di affrontarne un altro più insidioso: il variegato mondo arabo.

La posta in gioco e gli interessi non sembrano tutti invisibili, perché la guerra in Libia è già silenziosamente in atto. Infatti le forze militari franco-britannico-statunitensi vengono da tempo segnalate sul territorio libico per bloccare il rapido estendersi dello Stato Islamico; ma tutto gira attorno al controllo delle fonti di petrolio, per impedire che terminal e raffineria a Ras Lanuf, Brega e Sidra cadano nelle mani degli jihadisti.

In questa corsa all’accaparramento del greggio sono in tanti a spingere il Governo Italiano a muoversi per non farsi soffiare il controllo della situazione libica. Il bellicismo di Parigi, Londra e Washington rischia di mettere in ombra il ruolo militare che qui l’Italia pretende di evidenziare e che gli USA gli hanno “affettuosamente” garantito. A casa nostra, intanto, è già aperta la disputa tra i nostri generali per chi dovrà assumere il comando delle operazioni. Così, una volta sconfitto l’Isis, sarà più facile per il nostro Governo sedersi al tavolo dei vincitori dove ovviamente si parlerà soprattutto di affari.

Siamo realmente dentro una guerra diversa dai conflitti del Novecento, ma non meno drammatica. Una guerra che non si sa bene quando e dove sia iniziata, quando, dove e come finirà.

Ma fermare le violenze e l’orrore fondamentalista è un compito non prorogabile della comunità internazionale, che ha gli strumenti per farlo, se c’è la volontà politica di utilizzarli senza bleffare. Una missione che parta dal dialogo e dalla ricomposizione della società civile, coinvolgendo tutte le comunità libiche. Inoltre, che abbia tra gli obiettivi quello di mettere in discussione le royalties del petrolio. Queste devono diventare una ricchezza per tutte le comunità del territorio e non una condanna per il Paese. Qui non c’è spazio per quella “politica missionaria” che, a suon di tamburi, manda i nostri soldati ad aiutare i popoli oppressi da dittature e poi ogni anno taglia i fondi per la cooperazione internazionale e per le Ong che operano nel sud del mondo.

Purtroppo da sempre, per risolvere i problemi, la guerra è stata solo una scorciatoia aliena da ogni razionalità; questo oggi si sta rivelando ancora una volta drammaticamente vero.