“Sono così dannatamente felice”
Vi è mai capitato di avere un sogno? Ecco, io sono Francesca e vi racconto il mio sogno.
Sin da quando ero bambina giocavo ad interpretare il ruolo dell’insegnante: facevo l’appello, spiegavo un argomento edinterrogavo i miei allievi, anche se ce n’era solo uno, mio fratello.
Insomma ero un insegnante a tutti gli effetti!
Con il passare del tempo ho intrapreso un percorso di studi finalizzato sin dall’inizio all’educazione e alla formazione dell’individuo. Dopo cinque anni di liceo avevo già acquisito l’aspetto teorico della disciplina; mi mancava quello pratico, ma avrei dovuto affrontare un’altra tappa: quella dell’università.
È stato un percorso difficile, di alti e bassi, appelli rimandati all’ultimo minuto, notti intere passate a studiare prima di ogni esame, la fortuna e l’ansia che accompagnava ogni interrogazione e la solita domanda: “Ma proprio a me il professore doveva chiedere quell’argomento?”.
È impossibile negare che l’ultimo anno sia stato il più difficile perché gli esami diminuivano e la meta diventava sempre più lontana. A ciò si aggiungeva il coronavirus e tutte le implicazioni socio-emotive che esso comportava.
Ma io avevo un sogno: quello di insegnare.
Finalmente arriva il giorno tanto atteso: la mia laurea. È stato il più bel giorno della mia vita, tutta quell’ansia e stanchezza accumulate in tutti questi anni sono svaniti all’affermazione: “La dichiaro dottoressa in Filologia Moderna”.
Dopo i festeggiamenti c’è stata la parte più brutta, di totale stallo, e la frequente domanda: “Che faccio adesso?!?”.
Dopo una settimana ho iniziato ad inviare innumerevoli curricula a tutti gli Istituti d’Italia ed ogni giorno di fronte al computer mi chiedevo se sarei stata chiamata e cosa avrei fatto qualora non avessi ricevuto alcuna chiamata. Però un giorno a fine settembre arriva quella chiamata tanto attesa: era la segreteria di una scuola che mi chiedeva se fossi disponibile per ricoprire un posto vacante. Nel giro di pochissimi secondi avrei dovuto scegliere cosa fare: seguire il mio sogno o no.
Ho scelto ancora una volta di inseguire il mio sogno e di rincorrerlo anche in capo al mondo, come nel mio caso, poiché la meta era un piccolo paese nei pressi di Monza, in Lombardia. E sarei dovuta essere lì nel giro di due soli giorni.
Tra tante questioni da sistemare (cercare alloggio e prenotare biglietti aerei) non ho avuto il tempo di pensare a come sarebbe stato il primo giorno da insegnante. Solo quando ho avuto un attimo di tregua, ossia la notte prima di coricarmi, ero consapevole di non avere la più pallida idea di come mi sarei comportata.
Tutti i miei amici, che avevano intrapreso la mia stessa carriera, mi tranquillizzavano dicendo di essere me stessa e che tutto sarebbe stato così spontaneo e naturale da non avere alcun motivo per essere irrequieta; ma, varcata quella porta, tutto il mio corpo tremava in sintonia con i battiti accelerati del cuore e la voce incrinata dall’emozione, a quel punto non ho potuto far altro che scusarmi per il tono di voce ma era il raffreddore; con il senno di poi mi sono resa conto che in effetti era una scusa terribile e banale. Entrata in aula, mi sono seduta perché altrimenti i ragazzi avrebbero notato la mia agitazione e sarebbe stato un totale disastro, ma guardandoli ho notato che essi provavano i miei stessi sentimenti di incertezza, curiosità e paura; e solo in quel momento mi sono rasserenata. Dalla presentazione hanno capito immediatamente che fossi pugliese, in particolare dalla pronuncia della O chiusa. Tale pronuncia è stata l’elemento scatenante per discorrere su viaggi e popoli, e in questo modo il mio primo giorno di scuola era già terminato.
A distanza di un mese, tra lezioni da preparare, interrogazioni ed innumerevoli circolari da leggere, il tempo scorre velocemente a tal punto da non lasciare spazio a nulla fuorché i compiti da correggere.
Se facessi un resoconto di questi giorni direi che è stata dura perché per la prima volta in questi 26 anni di vita ho lasciato la mia famiglia, il “nido”, come direbbe Pascoli; e ho conosciuto un altro aspetto della vita: la solitudine. Sto facendo i conti con me stessa, con le mie debolezze e nuove responsabilità e decisioni che prima delegavo ad altri e che ora spettano a me; e non posso negare che alcune volte è davvero divertente, altre no.
La scorsa settimana i miei genitori sono arrivati per aiutarmi con il trasloco. Il tempo di sistemare le cose e sono andati via. Alla loro partenza non è stato facile pronunciare la frase circostanziale “Ci vediamo presto”, ho trattenuto le lacrime e sono fuggita via affinché loro non vedessero quanto mi pesava quel momento così difficile, quasi innaturale, dover scegliere tra la famiglia e il lavoro… Allora mi sono chiesta perché non poteva essere tutto così semplice e per quale motivo è così difficile realizzare un sogno.
Poi, il giorno dopo, mi sono recata a scuola e ho visto i volti dei miei allievi entusiasti alle gesta eroiche di qualche condottiero romano e alle imprese di “Ciro il Grande”, volevano sapere di più, facevano mille domande a cui a volte è stato davvero difficile trovare una risposta repentina ed esaustiva, e frenare il loro fervore; poi ci sono stati alcuni che, dopo una spiegazione, intervenivano con domande a dir poco geniali, e in quel momento la soddisfazione ha preso il sopravvento e i miei occhi brillavano di gioia nell’aver catturato la loro attenzione, ed ho capito, soltanto in quell’istante, che questo è il mio posto.
In queste settimane ho iniziato con le interrogazioni; alla vista dei volti impauriti ed ansiosi degli allievi ho rivisto me stessa quando ero studentessa e in quel momento ho realizzato di essere un insegnante. Tante volte, da studentessa, mi sono chiesta cosa pensasse quella parte tanto temuta dagli studenti, ossia i professori, mentre ci interrogavano; non posso negare che alcune volte ho pensato che si divertissero a mettere voti ingiusti.
Ora da quella parte ci sono anch’io e credo di sapere cosa pensano gli insegnanti ogni qualvolta che interpellano gli studenti sugli argomenti spiegati a lezione: essi fanno il tifo per loro. Ho ascoltato e gioito all’esposizione e rielaborazione degli argomenti, sui quali avevo passato intere ore per renderli semplici ai loro occhi; e soro rimasta intristita di fronte al silenzio di alcuni. Per non parlare dell’aspetto più infausto di tale mestiere: mettere i voti. È difficile valutare un allievo nel giro di 10/15 minuti e quantificare i suoi interventi, ma d’altronde la vita è caratterizzata soprattutto da fugaci occasioni, in cui, con la dialettica, devi conquistare l’interlocutore, più in generale il mondo, che ti valuta costantemente e a volte senza alcun indugio ti liquida in un attimo.
La vita è anche questo ed è necessario educare l’allievo a saper vivere nella società, a comunicare ciò che vuole, a credere in qualcosa e a portarla avanti, a discapito di tutto e tutti. Se voi ci pensate, il termine educare deriva dal latino e-ducĕre e significa “condurre” e di fatti il mio obiettivo è quello di accompagnare lo studente in un percorso che non è solo di studio ma riguarda, più nello specifico, la vita.
Allora quando mi chiedono se sono felice di tale esperienza, la mia risposta è sì, sono così dannatamente felice.
Un tuffo nel passato dei ricordi della mia infanzia, anch’io giocavo a fare l’insegnante con le mie bambole e dei sentimenti provati il primo giorno di scuola: indimenticabile, intenso emotivamente perché ci si rende conto che quel “sogno” ripetutamente immaginato tra i libri di studio e i tanti esami ora si sta concretizzando. Un percorso non facile, fatto di tanti sacrifici per poter arrivare a varcare la soglia di un’aula e lì all’improvviso negli occhi dei ragazzi trovi tutta la felicità e l’amore del mondo. Ad maiora!