Un paradiso per gli atrofili

Briciole di case, poche per dirsi un paese, troppe per dirsi un villaggio: come ciottoli di torrente lastricano la strada maestra che si dipana, pietra dopo pietra, da una piccola scesa a un’altra salitella, rimbalzando tra vecchi negozi e storie a volte leggendarie, sino a proseguire verso l’olimpo del Pollino con i suoi boschi, le acque tonanti e i millenari silenzi dei pini loricati. Lontano ancora lo Jonio, al di là delle Serre.

I giovani vanno via da sempre: come tanti del Sud girano per il mondo e lo attraversano contaminandolo di talenti, di creatività, di calore, raggiungendo luoghi lontani come ambasciatori di un’umanità che viene da secoli di duri sacrifici e che è portatrice di una grande cultura che giace oggi come sopita: quella contadina. E se dove passano riescono a generare valore come spesso accade, è anche perché si portano appresso, insieme a quell’antica saggezza, le selve delle ginestre che qui a giugno irrompono festose con gialli e profumi intensi, tra macchie di sempreverdi e gigantesche faggete. Ogni volta che ci torno ne resto purificato; sembra infatti m’aspettino fedeli per abbracciarmi, offrendomi ciò di cui ho realmente bisogno: la consolazione dell’ombra estiva e le foglie d’oro del nascente inverno quando già s’avvinghia crudele al corpo e alla mente…

Qui una notte, lasciati al sonno sicuro i nostri figli allora bambini, uscimmo io e mia moglie a guadagnare l’aria frizzante, a ristorarci così dalle fatiche della vita, mano nella mano, incamminandoci verso un sentiero mai affrontato, fuori dall’abitato.

Appena svanita la luce dell’ultimo lampione, fattasi campagna la strada, naviganti senza radar in un buio che nelle città è scomparso da cent’anni, finalmente venimmo raggiunti da un cielo radioso, denso di stelle!

E non avemmo più paura, né del passato, né del futuro: benché soli in quell’immane silenzio siderale, eravamo cullati e accarezzati da una sconfinata bellezza che ci amava da sempre, rassicurandoci che in ogni tempo lo saremmo stati, qualsiasi cosa fosse accaduta.

Sentimmo la nostra piccolezza, la nostra casualità; e ci liberammo d’un tratto di quell’aura di arroganza tipica degli umani, dalle ansie del domani, guardandoci nell’oscurità come mai c’eravamo visti…  Ringraziammo quelle stelle per quel presente rivelato, per il nostro «viverci nuovi» e per l’Amore che trasmettevano a ogni vivente, senza differenze di sorta.

E da allora le stelle di San Severino ci accompagneranno per la vita regalandoci fiducia e gratitudine. E ancora, soprattutto, la speranza.

Gispès


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