«Tutto quello che puoi fare, o sognare di poter fare, incomincialo. Il coraggio ha in sé genio, potere e magia. Incomincia adesso»
(J.W. Goethe)
#mehbastaproprio
Mi è capitata per caso sotto mano la foto di copertina di un vecchissimo romanzo di Ugo Foscolo.
Si è aperta una voragine.
Avevo 13 anni, a scuola facevamo le ore di narrativa, ci facevano leggere e dovevamo imparare a farlo ad alta voce, con la giusta intonazione, rispettando rigorosamente la punteggiatura. E poi dovevamo produrre: comprensione, riassunto, opinione. Produrre.
Avevamo finito ”I dolori del giovane Werther” di Johann Wolfgang Goethe (sì, avevo 13 anni e le scelte dei miei docenti non hanno istigato nessun suicidio).
Ripensandoci, non sono mai più riuscita a chiamarlo solo “Goethe” perché ho passato ore intere a pronunciare interamente il suo nome ed il suo cognome: mi piaceva, era altisonante alle mie orecchie, così lo ripetevo, ripetevo, ripetevo, senza stancarmi.
Il punto è che, alla fine di quel romanzo, ho scoperto cosa potesse voler dire sentire la mancanza di qualcosa: non riuscivo a star bene senza poter continuare a leggere quelle pagine. Così mi venne in mente una possibile soluzione. Iniziai a cercare assolutamente random qualsiasi cosa potesse, a parer mio, avere affinità con ciò che avevo finito e di cui faticavo a fare a meno. Quel poco che sapevo mi condusse ad una sola possibile scelta: cercare, da qualche parte, un altro romanzo epistolare.
Così, non so nemmeno come, finii per chiedere a mia madre di comprarmi le “Ultime lettere di Jacopo Ortis”, di Ugo Foscolo.
Quando me lo portò, lo afferrai con la sete di un turista perso nel deserto, aveva la copertina gialla (colore che già all’epoca mi stava antipatico, senza motivo), mi buttai sul letto e con la foga presuntuosa di chi crede di sapere, iniziai a leggere.
Cioè, provai.
Perché solo un tentativo poteva essere, lo intuii forse al quinto rigo. Non ci capivo niente, ma niente! Ogni tre parole dovevo ricominciare. Imparai così altre due cose: il significato di “ostico” ed il fatto che “ostico” era una cosa, qualsiasi cosa, che potendo, io avrei dovuto superare. Credo sia nata così la mia ostinata fissazione per la comprensione delle cose. Anche oggi, quando non capisco qualcosa impazzisco e inizio a fare qualsiasi tentativo possibile per superare la condizione di non comprensione. In sostanza, chi mi conosce lo sa, io “devo” capire.
Al netto di questo e chiedendo perdono a Foscolo per la definizione poco felice del suo linguaggio, che nasceva solo dalla mia ingenua immaturità (non solo linguistica), tanto feci e tanto provai che alla fine… la luce!
Altra cosa imparata: bastava esercizio. Non al primo giro, non al secondo, forse non al terzo, ma dal quarto in poi, avevo vinto! Ero entrata nel “gergo”, nessuno me lo aveva insegnato nello specifico, ma avevo capito qual era la chiave di scrittura di quella penna diversa e così ero entrata.
Non era bastato aprire il libro, per varcare la soglia, bisognava andare a cercare la chiave nel mazzo: e c’era!
Regina delle lezioni: la volontà spalanca qualsiasi cosa.
Sono passati trent’anni e non ho dimenticato.
Non ho dimenticato chi mi faceva leggere dietro ai banchi, non ho dimenticato Johann Wolfgang Goethe, non ho dimenticato il muro preso in piena faccia alle prime parole di Foscolo e, soprattutto, non ho dimenticato il piacere sconfinato che ho provato quando le sue pagine, come le altre, hanno iniziato magicamente a scorrere lisce come l’olio. Il che, chi conosce quel romanzo lo capirà, non è affatto scontato.
All’epoca non potevo saperlo, oggi lo so: nessun incantesimo era intervenuto.
C’era solo stato qualcuno di buona volontà che mi aveva insegnato che le cose difficili si possono tentare e che Werther non è vietato ai minori di 14 anni, per nessuna ragione. Da lì avevo imparato che potevo imitare il tentativo, infilandomi da sola in qualcosa di difficile.
E così avevo scoperto che sì, avevo anche io una testa capace di superare l’ostacolo. Che poi fosse anche cuore, l’ho compreso col tempo.
Premio?
«Contemplo la campagna: guarda che notte serena e pacifica! Ecco la Luna che sorge dietro la montagna. – O Luna! amica Luna. Mandi ora tu forse su la faccia di Teresa un patetico raggio simile a questo che tu diffondi nell’anima mia? Ti ho sempre salutata mentre apparivi a consolare la muta solitudine della Terra: più volte uscendo dalla casa di Teresa ho parlato con te, e tu eri testimonio de’ miei delirj: questi occhi molli di lagrime più volte accompagnata in grembo alle nubi che ti ascondevano: ti hanno cercata nelle notti cieche della tua luce. Tu risorgerai, tu risorgerai sempre più bella; ma l’amico tuo cadrà deforme e abbandonato cadavere senza risorgere più. Or ti prego di un ultimo beneficio: quando Teresa mi cercherà fra i cipressi e i pini del monte, illumina co’ tuoi raggi la mia sepoltura.» (U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis)
E scusatemi, mi ripeto: no, nessuna di queste fatiche letterarie mi ha fatto pensare al suicidio. Al più, mi ha fatto venire voglia di vivere molto a lungo, per non dover smettere.
#mehbastaproprio
Splendido scritto