“Perché la terra dei cachi è la terra dei cachi”. È la tautologia con la quale si conclude l’omonima “canzone” del gruppo musicale Elio e le storie tese. Un motivetto orecchiabile e caustico che ha introdotto una inedita similitudine ortofrutticola, probabilmente più appropriata della celebrata ma un po’ distopica “Repubblica delle banane”, consacrata da Eugenio Scalfari (e Giovanni Agnelli), allusivamente evocata dalle vignette di Altan, “brandizzata” da un marchio di moda.
L’Italia, terra dei cachi, sempre uguale a sé stessa, come un cesto di questi frutti dolci e mollicci, che si avariano rapidamente. Incapaci di fare squadra, piuttosto ci deterioriamo insieme coltivando la mesta soddisfazione che il vicino sia più flaccido di noi. Storia antica, di campanili, contrade, condomini, pianerottoli (e lastrici solari) in perenne, goliardico (ma anche no) micro-macroconflitto.
Notazioni del tutto personali, in “salsa” sociologica (ma non per questo meno soggettive) alle quali non riesco a sottrarmi leggendo le solite compiaciute geremiadi della politica e della stampa sul posizionamento delle università italiane nelle classifiche internazionali (ranking). Nessuna università nei primi 100-150 posti, come premessa per dire che tutto il sistema universitario italiano “fa schifo” (il finissimo argomento fu illustrato da Antonio Polito durante una puntata di Matrix, di qualche anno fa).
Nulla di più sbagliato.
Prego, clean the desk (come dire, sgombriamo il discorso dagli equivoci). Lungi da me l’intenzione di negare (e come potrei ?) le molte criticità di cui soffre l’università italiana.
Ciò posto, però, vorrei proporre tre obiezioni, due di carattere generale e una più specifica e articolata:
– se siamo uno dei paesi della globalizzazione che investe di meno nel settore della formazione e della ricerca, non comprendo per quale miracolosa ragione le università italiane dovrebbero svettare rispetto a quelle di paesi che irrorarono gli atenei con fondi molto più cospicui delle risorse che ricevono i nostri;
– e ancora, fatico a comprendere perché l’università italiana dovrebbe essere migliore di un paese che crede nelle “conoscenze” più che nella conoscenza, nelle raccomandazioni più che nel merito dei curricula, che pratica il familismo e – non di rado – la corruzione più della concorrenza; un paese nel quale albergano sacche di ignoranza orgogliosa di sé, fighetta, ostentata, esibita che si propone quale modello di un successo che prescinde dalla fatica (triste) del sapere.
Più nello specifico, piuttosto che fare di tutt’erba un fascio bisognerebbe imparare a leggere con più attenzione i rating delle diverse agenzie che classificano le università del globo (ciascuna sulla base di parametri diversi, anche non statistici, talvolta molto opinabili).
In altri termini, piuttosto delle lagne da “cachi” dovremmo imparare ad osservare che:
– un ateneo trasversalmente presente nelle principali classifiche (sia pure in posizioni di retrovia) ha un “rating” maggiore di un ateneo del tutto assente nelle diverse graduatorie;
– più sono le classifiche in cui è presente un ateneo maggiore è il suo rating rispetto a quello presente solo in meno classifiche;
– soprattutto più è stabile/duratura la presenza di un ateneo in una o più classifiche più elevato è il suo rating rispetto ad una università che compare fugacemente in una piuttosto che nell’altra classifica.
Ciò posto, la notizia non è necessariamente che la prima università italiana in una di queste classifiche è quella di bologna (solo al 150° posto). La notizia è che su 95 atenei italiani solo 30 sono stabilmente presenti in almeno metà delle classifiche e che questi atenei hanno un rating migliore dei 65 (sostanzialmente) assenti dalle classifiche.
Giuseppe Losappio