Magistrato, giornalista, Capo delle investigazioni per le Nazioni Unite in America Centrale, candidato Premier, Avvocato. Una lungo curriculum dedicato alla giustizia e alla società civile. Conosciamo Antonio Ingroia.

Dottor Ingroia, lei ha discusso una tesi di laurea sul fenomeno mafioso in Sicilia solo quattro anni dopo l’introduzione della legge “Rognoni-La Torre” che riconosceva questo tipo di reato. L’impressione di chi vive all’esterno della Sicilia, e quindi ne ha seguito le cronache da lontano, è che di Mafia non si sia potuto parlare per anni. Cosa l’ha spinta a scrivere di questo argomento e qual è stato il contesto storico in cui si è trovato ad affrontarlo?

Ho scelto di fare il magistrato perché credevo nella giustizia e volevo essere utile ai cittadini, a quella maggioranza onesta che non vuole arrendersi all’ingiustizia, alla sopraffazione, al potere criminale declinato in tutte le sue forme, quella in coppola e lupara come quella dei colletti bianchi. Una volta diventato magistrato occuparmi di lotta alla mafia è stata una naturale conseguenza, tanto più per un siciliano come me, nato e cresciuto in una terra in cui la mafia si è sostituita per anni allo Stato, controllando il territorio e talvolta le istituzioni, imponendo i suoi uomini e le sue leggi.

Una terra in cui il potere mafioso ha beneficiato a lungo del requisito della “normalità”, in cui i boss non venivano visti come criminali ma come padrini da onorare, in cui l’esistenza della mafia veniva negata, al punto che la parola stessa – mafia- era tabù. Cosa nostra c’era e proliferava, ammazzando, trafficando in stupefacenti, imponendo il pizzo, allungando le mani su tutti gli appalti, riciclando denaro, entrando nella grande finanza, trattando addirittura con lo Stato, ma non se ne poteva nemmeno parlare. Era la legge dell’omertà, contro cui io ed altri, per fortuna molti altri, abbiamo deciso di lottare, di batterci, ognuno nel proprio ruolo. Per ridare coraggio, dignità e libertà alla gente onesta.

Lei ha cominciato prestissimo come magistrato a fianco di grandissimi nomi come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. L’eredità che hanno lasciato al paese è immensa. A lei cosa è rimasto? C’è un insegnamento, un aneddoto particolare che vuole raccontarci?

Sì, ho avuto la fortuna e il privilegio di avere due maestri straordinari come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, dai quali ho imparato tantissimo. Due giganti cui dobbiamo tutti un enorme ringraziamento, per quello che hanno fatto, per il coraggio e la dedizione che hanno avuto, fino al punto di sacrificare la loro stessa vita per fare dell’Italia un paese migliore, più giusto, più onesto, più libero. La lotta alla mafia ha avuto un prima e un dopo: prima di Falcone e Borsellino e dopo di loro. Prima mancava una vera strategia d’intervento, un approccio sistematico. Mancavano anche gli strumenti per un’efficace azione di contrasto a Cosa nostra. Loro due hanno portato la svolta, hanno introdotto un metodo. Falcone è stato il primo ad imporre la scientificità del metodo d’indagine, un metodo basato sull’utilizzo scrupoloso dei collaboratori di giustizia e delle intercettazioni ma anche, sempre, sui necessari riscontri documentali. È stato il primo a capire che per trovare tracce delle attività illecite bisognava seguire i movimenti del denaro, occorreva individuare i canali attraverso cui i capitali criminali venivano riciclati per essere reimmessi in attività lecite. Per questo avviò indagini finanziarie presso banche e istituti di credito in Italia e all’estero, attirandosi ovviamente l’ostilità del sistema bancario e dei gruppi di potere ad esso collegato.

L’idea era semplice ma a suo modo rivoluzionaria: seguire i capitali mafiosi per arrivare ai mafiosi, anche cercando lontano, dall’altra parte del mondo, perché la mafia aveva smesso già all’epoca di essere una questione strettamente siciliana per diventare un fenomeno criminale internazionale. Sua fu anche l’intuizione di istituire una Procura Nazionale Antimafia, un organismo giudiziario con il compito di coordinare le inchieste delle diverse procure distrettuali antimafia. Aveva capito che era necessario ricreare, su scala nazionale, le condizioni che erano state alla base del lavoro del pool antimafia. Di Falcone sono stato il primo uditore giudiziario, come si diceva all’epoca, assegnato in tirocinio professionale con lui. Ricordo la prima volta che mi vide: non era stato informato del fatto che gli era stato assegnato un uditore giudiziario di prima nomina, per cui il mio arrivo, un po’ un intruso nell’aula bunker, gli creò un momento di smarrimento. Da lì nacque poi un rapporto fatto di scambio di idee e di vedute, di apprendimento da parte mia, ma anche di confidenza e di condivisione, che è stato preziosissimo per me.

Quanto a Borsellino, è stato per me un maestro ed un amico, ma anche qualcosa di più familiare, a metà fra uno zio ed un fratello maggiore. Da lui ho appreso i primi rudimenti del mestiere di magistrato inquirente, è stato lui a trasmettermi l’amore per il nostro lavoro, la passione per la giustizia e quell’insofferenza nei confronti del sopruso organizzato, che gli aveva consentito di trasformare Marsala da anonima periferia in punto di riferimento nazionale della lotta alla mafia.

 Da Pubblico Ministero ha ottenuto successi importanti anche in processi al centro dell’attenzione dei media e della politica. Penso all’omicidio del giornalista Rostagno, ma anche al processo del fondatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri (condannato con sentenza definitiva a 7 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa, ndr). È stato complicato portare avanti quei processi? E secondo Lei a che punto è il rapporto tra i media e la politica verso la Magistratura?

Ovviamente non è stato affatto facile, soprattutto perché alla obiettiva complessità di processi articolati su terreni difficili da investigare e a distanza di molti anni dai fatti cruciali si è aggiunta la difficoltà di affrontare indagini e processi contro l’ostilità della politica e dei media, spesso orientati pregiudizialmente a screditare indagini e processi di un certo tipo o aventi un certo tipo di imputati. Tutto è iniziato quando la magistratura ha iniziato a svelare le malefatte del potere, ed a quel punto un sistema si è rivoltato contro la magistratura ed i singoli magistrati che quelle indagini, con difficoltà, portavano avanti.

Ad un certo punto, nel 2013, ha deciso di candidarsi Premier con una formazione del tutto indipendente ai Partiti tradizionali. Perché? E, inoltre, sapeva già che questo l’avrebbe portata ad abbandonare la sua carriera da Pubblico Ministero?

Ho combattuto a lungo dentro la magistratura non solo contro la mafia ma anche per la verità. La verità sulla stagione delle stragi, la verità su mandanti ed esecutori, la verità sul patto osceno che esponenti ai più alti livelli dello Stato a un certo punto decisero di stringere con Cosa nostra solo per salvare se stessi. In pochi anni abbiamo fatto tanti passi avanti nell’accertamento della verità, ma ad un certo punto il sistema si è rivoltato contro precludendoci spazi e margini per andare avanti.

Nel 2013 ho capito perciò che con la toga mi sarebbe stato impossibile arrivare a certe verità, che per la magistratura sarebbe stato impossibile arrivare in fondo, fino a quando fosse rimasta sotto l’assedio della politica. Nacque così l’idea di Rivoluzione Civile e della mia candidatura alle elezioni politiche, un tentativo di rompere l’accerchiamento, e di cambiare la politica per restituire autonomia e indipendenza alla magistratura, un tentativo rimasto purtroppo incompiuto nonostante abbia raccolto quasi un milione di voti in soli due mesi. Io comunque non mi sono mai sentito un politico nel senso stretto del termine, l’obiettivo di Rivoluzione Civile era restituire ai cittadini una nuova forma di partecipazione alla politica, ciò che oggi non riescono a fare più i partiti convenzionalmente definiti di “sinistra”, a cominciare dal Partito Democratico.

Quel tentativo purtroppo attirò contro di me attacchi durissimi, come se prima di me mai un magistrato avesse deciso di fare politica. Tanti dietrologi in libera uscita parlarono di scelta opportunistica, per fare carriera, ed invece fu semmai vero il contrario: abbandonai una carriera ’sicura’ da magistrato perché mi resi conto che con la toga non potevo più ormai portare avanti le mie battaglie, ed allo stesso tempo rifiutai comode poltrone parlamentari, che pure mi furono proposte, per provare ad affermare una politica nuova, dal basso, partecipata e non calata dall’alto. Il risultato non fu quello che speravo, ne ho preso atto facendo anche l’opportuna autocritica, ma senza arrendermi.

Dopo qualche anno lontano dai riflettori, è tornato al centro della cronaca nel suo nuovo ruolo di Avvocato, difendendo – con l’Avv. Bartolo Parrino – Pino Maniaci. Si è scritto e detto tanto della vicenda, anche sul metodo che la Procura di Palermo ha usato per arrivare all’ordinanza a carico di Maniaci. Qual è la sua opinione in merito? Cosa vi attende e si aspetta, da Avvocato, da questa vicenda?

In tanti, in questi mesi, hanno processato e condannato con sentenza immediata Pino Maniaci per quello che hanno letto e sentito sui giornali, in rete o in televisione. Un processo sommario, rapidissimo e inappellabile, caratterizzato dall’accanimento tipico di chi vuole farla pagare a qualcuno, soprattutto se è un personaggio scomodo qual è, ed è sempre stato, il direttore di Telejato. Un processo soprattutto mediatico, celebrato a mezzo stampa, anche perché quando il procedimento si è svolto nelle aule di giustizia per ben due volte i giudici, il Tribunale del Riesame e un gip, ci hanno dato ragione, quando hanno rilevato la mancanza di veri indizi di colpevolezza. Tutto ruota attorno ad un video dei carabinieri, montato secondo un’attenta regia, inserendo intercettazioni e fatti penalmente non rilevanti. Un atto extraprocessuale, che infatti non è stato presentato al giudice, confezionato solo per distruggere l’immagine di Maniaci, vittima di rancori e vendette di quanti – e non sono pochi – non vedevano l’ora di liberarsi di una voce libera che dava troppo fastidio.

Manca però la cosa più importante e cioè la prova che Maniaci ha intascato tangenti. Non c’è una minaccia, condizione necessaria per configurare l’estorsione. Non c’è la promessa di un cambio di linea editoriale, di un ammorbidimento nei servizi giornalistici di Telejato verso i sindaci. C’è solo una richiesta di denaro, per la quale Maniaci ha però fornito già spiegazioni. È chiaro che a Maniaci si vogliono far pagare le coraggiose inchieste giornalistiche con cui ha denunciato un malaffare diffuso, a partire da quelle sul sistema Saguto-Capellano Seminara e sulla illecita gestione dei patrimoni in sequestro di prevenzione che i recenti provvedimenti della procura di Caltanissetta hanno evidenziato in tutta la loro enorme gravità.