«Mi venne in sogno una femmina balba, 
ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta, 
con le man monche, e di colore scialba»

(Purgatorio XIX, vv.7-9)

Il canto XIX vede Dante passare dalla quarta alla quinta cornice dove si purificano avari e prodighi. La prima parte della narrazione è interamente occupata da un sogno del poeta che racconta di vedere una donna che sembra raccogliere in sé ogni deformazione: è balbuziente, cieca, coi piedi storti, le mani monche e il colorito cadaverico; eppure, mentre Dante continua a fissarla, si trasforma nella più belle delle sirene, la stessa che lusingò Ulisse; appare accanto a Dante anche una donna santa e sollecita, la quale invoca l’intervento di Virgilio; prontamente questi solleva le vesti della sirena e ne scopre il ventre putrido, tanto che il cattivo odore ridesta bruscamente il povero sognatore…

Scopriremo così che la visione è allegoria della cupidigia per i beni materiali, la stessa che atterra lo sguardo degli uomini, i quali – invece che tendere al Cielo – sono tutti presi da ciò che passa e imputridisce. È la situazione di avari e prodighi, anche se della seconda categoria non si hanno informazioni in questo canto. Dante li vede prostrati a terra, i piedi e le mani legate, mentre piangono i propri peccati. Gli rivolge la parola colui che in vita, sia pure per un sol mese, fu papa Adriano V. Egli gli ricorda che nell’aldilà non ci sono distinzioni di rango e che troppo tardi si è pentito della propria avarizia: solo quando, giunto al soglio pontificio, si era reso conto che non gli sarebbe stato possibile elevarsi oltre.

La «vita bugiarda» (v.108) che piange Adriano V, l’unico pontefice fin qui incontrato verso il quale Dante mostri un qualche segno di rispetto, è la stessa che accomuna quanti di noi si illudono di “salire in alto” a furia di accumulare beni o di acquistar fama, magari spendendo e spandendo.

Illusi, non ci rendiamo conto di quanto breve sia la vita, di quanto non facciamo in tempo ad accumulare che già dobbiamo lasciare tutto, di come nulla portiamo con noi se non una «corrispondenza di amorosi sensi», come canta Foscolo nei Sepolcri.

Passeggiavo, giorni fa, nel centro di una delle città più importanti del sud Italia. Leggevo i nomi delle diverse vie. Alcuni mi suonavano familiari. Sicuramente si trattava di patrioti, eroi del Risorgimento, protagonisti dell’Unità d’Italia, oppure nobili di nascita e grand’ufficiali di chissà quali eserciti. Ma la verità è che a me, che pure avrei una laurea in lettere e cartoline, la gran parte di quei nomi mi dicevano niente o quasi niente. Eppure, stiamo parlando di gente che, come si suol dire, “è passata alla storia”. Passata e trapassata, aggiungerei, altroché.

Quanto a noialtri, la sorte più probabile è che, nel giro al massimo di una o due generazioni dopo la nostra morte, nessuno saprà più della nostra esistenza. Quanto dovrebbe renderci saggi la consapevolezza del nostro essere transeunti! E, d’altro canto, quanto ci atterra e sotterra la brama di avere e possedere, nell’illusione che avere di più ci faccia essere di più, ci faccia esistere di più. Più degli altri. Più della morte.

Ciechi, coi piedi storti, le mani monche e il colorito cadaverico: questo siamo. E, naturalmente, anche balbuzienti.

A meno che non riusciamo ad ascoltare la voce dell’angelo della sollecitudine che ci invita a levarci in alto. A meno che non ascoltiamo la voce della ragione che scopre il velo di Maya e ci mostra quanto putrescente sia ciò che solleticava la nostra bramosia.

Mary Barbara Hamilton Cartland: «Pare che per molti il desiderio maggiore sia quello di essere il più ricco al cimitero».

Martin Held: «L’avarizia è l’unico vizio che, agli occhi dei discendenti, si trasforma in una virtù».

Leo Longanesi: «Vissero infelici perché costava meno».


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La mia fortuna? Il dono di tanto amore che, senza meriti, ricevo e, in minima parte, provo a restituire. Conscio del limite, certo della mia ignoranza, non sono mai in pace. Vivo tormentato da desideri, sempre e comunque: di imparare, di vedere, di sentire; di viaggiare, di leggere, di esperire. Di gustare. Di stringere. Di abbracciare. Un po’ come Odysseo, più invecchio e più ho sete e fame insaziabili, che mi spingono a correre, consapevole che c’è troppo da scoprire e troppo poco tempo per farlo. Il Tutto mi asseta. Amo la terra di Nessuno: quella che pochi frequentano, quella esplorata dall’eroe di Omero, ma anche di Dante e di Saba. Essere il Direttore di "Odysseo"? Un onore che nemmeno in sogno avrei osato immaginare...

4 COMMENTI

  1. È sempre un po’ difficile trovare un equilibrio, una via di mezzo: siamo prodighi o avari? Più facilmente ci avvinghiamo alle cose che ci siamo guadagnati a fatica o più facilmente le abbiamo trovate, le tratteniamo e a volte neghiamo di averle tanto che le dobbiamo nascondere per non mostrarle e magari poi doverle condividere. I paradisi fiscali o semplicemente le banche sono stracolme di tesori che una vita intera non basterebbe a svuotarli, eppure chi possiede i beni, soprattutto chi ne possiede molti è poco avvezzo a mostrarli o se lo fa li ostenta, sfidando lo sguardo di chi mendica per sopravvivere. Le ricchezze incollate sui palmi delle mani di chi molto possiede diventano alla fine una macina al collo che fa sprofondare nel baratro dell’ egoismo smisurato, che porta spesso alla solitudine e all’aridità del cuore. Di contro chi spende e spande senza pensare a un futuro, senza condividere per amore e non per guadagnarsi false amicizie, non è in grado di dare il giusto prezzo alle cose, di rappresentarsi la fatica dell’onesto guadagno, di pensare che prima o poi tutto ha una fine e non prospettarla è da sciocchi bendati. Una vita ben più allegra questa, rispetto all’avida, ma ugualmente misera di sentimento perché l’unico palpito è il piacere di godere senza farsi commuovere da chi anela a un sol riflesso di tanta ricchezza. Abbiamo ricevuto in parti diseguali ma abbiamo un’umanita’ con cui spartire e godere, aprendo le dita per offrire a chi non ha, aprendo il cuore per amare chi è meno fortunato di noi.

  2. L’avarizia l’ho sempre considerata non solo come “strumento” per “arricchirsi”, elevarsi socialmente e sentirsi il “signore” ricco e potente, ma anche un modo per occupare i vuoti che hai dentro. Accumuli, accumuli per riempirti di cose che soddisfano l’ego, solleticano gli occhi per gli amanti del bello, ma poi?Si rimane più soli, più tristi e più disperati perché un cuore chiuso e miope non godrà mai della calda ed “illuminante” luce che solo i legami tra le persone possono realizzare. Provo profonda pena per gli avari perché si autoimpongono una vita-non vita, una precoce morte di tutto ciò che c’è di bello e magico dentro e fuori di noi.

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