Pepe: «C’è bisogno di una diversa cultura della salute. Questa è un bene relazionale per eccellenza. C’è bisogno di una comunità che educhi alla salute, a relazioni salutari con se, con gli altri, con il mondo»
Il 13 febbraio a Lavagna (GE), un ragazzo si è suicidato in seguito ad una perquisizione che la Guardia di Finanza stava effettuando in casa sua. Successivamente si è scoperto che la GdF fu chiamata dalla madre del ragazzo, che cercava aiuto nelle forze dell’ordine. Quanto accaduto è stato oggetto di molte discussioni negli ultimi giorni sia per il ruolo che le forze dell’ordine debbano rivestire in questi casi, sia per il comportamento della madre del ragazzo. Ne parliamo con Natale Pepe, sociologo della salute, dirigente sociologo presso il Servizio Dipendenze della Azienda Sanitaria locale di Matera.
Dott. Pepe, in base alla sua esperienza, che idea si è fatto su questa vicenda?
Il dolore di una madre va ascoltato. Ci si deve accostare con un sentimento di compassione, sospendendo ogni giudizio. Educare è difficile, ieri come oggi. La sfida di questo tempo è quello di rendere maggiormente resilienti i più giovani, renderli capaci di stare di un contesto in cui si è fortemente esposti a situazione rischiose per la propria salute ed integrità fisica. Abbiamo bisogno di una “comunità educante” dove i fattori protettivi, le abilità di vita, le reti relazionali forti, siano promossi. Sono questi a renderci resilienti. Educare è prevenire.
Nel discorso di addio al figlio, la madre ha accusato quella che è la società moderna: troppi social network e poca vita sociale. Secondo lei è uno scarico di coscienza o si deve pensare a un cambio di linguaggio e di riferimenti dei modelli educativi verso i più giovani?
Occorre saperne di più, far crescere le proprie conoscenze su questi temi. Non essere soli nell’affrontare il difficile compito dell’educare. Abbiamo bisogno di occasioni, reti, gruppi di genitori che si confrontino sull’esperienza della genitorialità. Una rete di gruppi d’auto-aiuto di genitori per affrontare insieme la normalità delle sfide educative che i figli pongono. Tra queste sfide il consumo “normalizzato” di sostanze psicoattive legali (alcol per esempio) ed illegali (hashish, marjuana, ecc.) ci rientra a pieno titolo.
Ci sono innumerevoli dinamiche che portano un ragazzo a fare uso di stupefacenti, anche in giovane età. Cosa sente di consigliare alle famiglie?
In Italia sono molte le “fonti” di potenziale sviluppo di una dipendenza patologica. Le sostanze psicoattive legali (alcol, nicotina contenuta nel tabacco, ecc.) e illegali (quelle che comunemente definiamo come droghe) non sono tutte uguali per caratteristiche intrinseche e per effetti. Non dimentichiamo poi il gioco d’azzardo. Ma tutte, dico tutte, nuocciono alla salute. Bisogna essere consapevoli di questo e dei diversi rischi che esse comportano.
Attualmente in Italia c’è una forte discussione sulla legalizzazione delle droghe leggere. Lei è favorevole o contrario? Quali sono, se ce ne sono, i rischi sociali a cui si va incontro?
L’esperienza di questi decenni ha mostrato come il proibizionismo relativo all’hashish e alla marjuana abbia consentito l’arricchimento straordinario delle narco-mafie senza che ciò contrastasse la diffusione del loro consumo nella popolazione. Il proibizionismo si è mostrato inefficace. A mio avviso, la legalizzazione a questo punto si rende necessaria. C’è bisogno però che questa non si trasformi in un “liberi tutti”. I cannabinoidi nuocciono alla salute e pertanto ne va fortemente regolamentata la vendita e contrastato il consumo attraverso azioni di promozione della salute. C’è bisogno di promuovere stili di vita salutari contrari al consumo delle sostanze psicoattive legali e illegali, di tutte, non solo tra i giovani. C’è bisogno di una diversa cultura della salute. Questa è un bene relazionale per eccellenza. C’è bisogno di una comunità che educhi alla salute, a relazioni salutari con se, con gli altri, con il mondo.