«Omè, maestro, che è quel ch’i’ veggio?», 
diss’io, «deh, sanza scorta andianci soli, 
se tu sa’ ir; ch’i’ per me non la cheggio.

(Inferno XXI, vv.127-129)

Caro lettore, adorata lettrice,

è un canto strano quel che ci tocca solcare in questa mattina di Pasqua e che Dante ci racconta di aver attraversato all’alba del sabato santo del 1300.

Siamo nella quinta bolgia, dove sono puniti i barattieri, cioè quanti, con l’astuzia e con l’inganno, “hanno scambiato il no col sì”, rivendendo merce di poco valore o gestendo un banco d’azzardo o, peggio ancora, venendo meno ai propri doveri di ufficio.

Ci aspetteremmo un Dante impacciato, considerato che proprio con la falsa accusa di baratteria egli fu bandito da Firenze, e invece ci troviamo in una sorta di sketch comico-realistico in cui i diavoli, che dovrebbero incutere timore, sono i primi a essere presentati con tratti grotteschi, sino all’ineluttabile verso finale di cui non creda serva parafrasi: «ed elli avea del cul fatto trombetta» (v.139).

La pena è quella del contrappasso per analogia: i barattieri agivano manovrando di nascosto e ora, se vogliono sfuggire ai bastoni uncinati dei Malebranche, questo il nome dei demoni della quinta bolgia, devono immergersi in pece nera e bollente.

La mia attenzione, in questo canto, è stata conquistata ancora una volta dal ruolo di Virgilio. Da lui, si sa, ci attendiamo indicazioni, consigli assennati, moderazione, senso della misura. Quel che qui ci appare fa, però, pensare ad altro: più al millantato credito che ad una ragione autenticamente sicura di sé.

Arrivati al momento dell’incontro/scontro con i Malebranche, Virgilio ancora una volta consiglia a Dante di nascondersi e di lasciar fare a lui che sa quel che fa, perché «ha le cose conte» (v.62), un po’ come nella scena preludio all’ingresso nella città di Dite, nel canto ottavo. Solo che, ora come allora, tale ostentata “self-confidence” mostra tutte le proprie falle: i diavoli custodi delle mura di Dite ricacciarono Virgilio a mani vuote, questi che puniscono i barattieri lo prenderanno in giro.

L’inganno, per la precisione, è opera di Malacoda, capo dei Malebranche. Egli sostiene che il ponte da dove vorrebbero passare è crollato 1266 anni prima, per la morte di Cristo, ma che un fidato seguito di ben dieci demoni – dai nomi quanto mai bizzarri – li condurrà al ponte successivo, salvo omettere che anche quello è crollato e che, dunque, di fatto, il vero obiettivo è impedire il fatale andare dei due poeti.

Incredibilmente, lo stesso Dante prova, ma invano, a scuotere la sua guida: «Ahimè, maestro, cos’è quel che vedo? …Ti prego, andiamo laggiù senza altra scorta, se tu conosci davvero la strada; di certo, io non chiedo altro» (vv.127-129).

Il punto è che, di fatti, Virgilio cade in inganno e questo mi fa pensare a quanto l’ironia dantesca sia anche autoironia. Quasi a dire: «Sto qui a fustigare i vizi altrui, a farmi vanto della mia ragione, ma il primo a prender fischi per fiaschi son proprio io! Hai voglia ad aver fede nell’uomo! Che si chiami Dante o Virgilio, nessun uomo vale Dio…”.

Nessun uomo vale Dio: può essere questo un pensiero adatto all’alba di Pasqua. Che si sia o meno credenti, che si creda in Cristo, in Allah o nella Trimurti, che si sia agnostici o indifferenti (con qualche mia personalissima riserva per quest’ultima categoria…), avere il senso del proprio limite, amarlo, accoglierlo, farlo proprio con gratitudine, è già forse l’inizio di una vita nuova: magari non sarà quella in cui incontreremo Beatrice, ma di sicuro potrebbe essere, già qui ed ora, un pochetto più beata.

Hans-Georg Gadamer: «L’autentica esperienza è quella in cui l’uomo diventa cosciente della propria finitezza».

E il premio Nobel Romain Rolland: «La felicità sta nel conoscere i propri limiti e nell’amarli».

Buona Pasqua!


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La mia fortuna? Il dono di tanto amore che, senza meriti, ricevo e, in minima parte, provo a restituire. Conscio del limite, certo della mia ignoranza, non sono mai in pace. Vivo tormentato da desideri, sempre e comunque: di imparare, di vedere, di sentire; di viaggiare, di leggere, di esperire. Di gustare. Di stringere. Di abbracciare. Un po’ come Odysseo, più invecchio e più ho sete e fame insaziabili, che mi spingono a correre, consapevole che c’è troppo da scoprire e troppo poco tempo per farlo. Il Tutto mi asseta. Amo la terra di Nessuno: quella che pochi frequentano, quella esplorata dall’eroe di Omero, ma anche di Dante e di Saba. Essere il Direttore di "Odysseo"? Un onore che nemmeno in sogno avrei osato immaginare...