Ricercatrice “postdoc Marie Curie” in letterature ispanoamericane all’Università “Ca’ Foscari” di Venezia e alla Università del North Carolina di Chapel Hill negli Stati Uniti, l’andriese Laura Alicino si occupa di intertestualità applicata allo studio della letteratura messicana precoloniale e di come viene rappresentata la violenza nelle letterature ispanoamericane contemporanee.

Ciao, Laura. In cosa consiste la borsa di studio internazionale “post-doc Marie Curie”?

Le borse internazionali Postdoc Marie Skłodowska-Curie sono finanziate dall’Unione Europea, che prevedono lo stanziamento di fondi per favorire la mobilità internazionale dei ricercatori e lo sviluppo di progetti di ricerca, in ogni ambito disciplinare, che siano caratterizzati da una forte componente di innovazione, di creatività della ricerca e di una metodologia interdisciplinare. Queste borse di studio si dividono in due tipologie: a) la borsa “European”, che dura massimo due anni, e incoraggia la mobilità di ricercatori europei che vogliano spostarsi in un Paese europeo non di origine per sviluppare la propria ricerca e ai ricercatori del resto del mondo che vogliano sviluppare la propria ricerca in Europa; b) la Global Fellowship, invece, che è quella che ho vinto io, che ha una durata massima di tre anni. Questa prevede i primi due anni di formazione in un’Istituzione che non sia europea e poi il ritorno in Europa, per l’ultimo anno di ricerca. Si presuppone, dunque, che il ricercatore vada a portare le sue competenze al di fuori dall’Europa, ne sviluppi di nuove nell’Istituzione non europea e poi riporti queste competenze di nuovo in Europa. In gergo tecnico, questo scambio di competenze e idee si chiama “three-way transfer of knowledge”. Nel mio caso, per esempio, io porto alla University of North Carolina delle competenze specifiche sulla poesia ispano-americana contemporanea sulla violenza, apprendo da loro metodologie nuove che riguardano lo studio della rappresentazione della violenza in altre dimensioni, come nella narrativa che è la specialità del mio supervisor, o nella letteratura latinoamericana afrodiscendente, che qui si studia in un centro di ricerca all’avanguardia, e poi riporto queste competenze all’Università di Venezia.

Come viene rappresentata la violenza nelle letterature ispanoamericane contemporanee?

Da sempre, dal momento dello scontro culturale tra l’Europa e il continente americano cominciato nel 1492, l’America Latina per noi costituisce quell’altrove, immaginario e immaginato, a cui diamo spesso il nome di ‘esotico’, fatto di una natura prorompente e meravigliosa, ma che ci ha anche dato la base di quello che oggi rappresenta la nostra quotidianità. Basti pensare alla nostra alimentazione, per esempio, poiché l’America Latina ci ha dato le patate, i pomodori o il cioccolato (pensa che nella mitologia maya Ek Chuha era la divinità del commercio e del cacao, appunto).

Anche l’America Latina, come molti altri continenti nel mondo, ha una storia costellata di violenza, che affonda le sue radici sicuramente nel colonialismo, che in certe realtà è diventata una forma di violenza estrema, ossia di completo disinteresse da parte degli organi statali e internazionali per il corpo, figurato e metaforico, della sua popolazione, con gravi forme di impunità, corpi di cittadini inermi letteralmente fatti a pezzi e riversi per strada, livelli di violenza di genere che assumono proporzioni tremende. In Messico, per esempio, attualmente si stima che avvengano più di 10 femminicidi al giorno, lascio a voi fare la moltiplicazione per 365. In questi scenari, anche qui come altrove, la letteratura è uno degli spazi privilegiati in cui si problematizza la realtà, la si guarda in faccia, gli si dà un nome. Oppure non glielo si dà, perché non ci sono le parole per darglielo, e ciò che resta è a volte una pagina bianca, o illeggibile, quel silenzio che siamo abituati a pensare come un’assenza di linguaggio, ma che in realtà è anch’esso un linguaggio.

Nella nostra società, in cui siamo letteralmente assaltati dal predominio dell’immagine, dal potere prorompente dei mezzi di comunicazione di massa, molto spesso il rischio è quello di trovarsi di fronte a forme espressione culturale che prediligono la spettacolarizzazione di questa violenza. Un esempio è la famosa serie di Netflix Narcos, o tutti quei libri che costruiscono una visione dell’America Latina in cui la violenza è dipinta come congenita, quasi mitizzata. Il risultato di questa tendenza è una ‘cosificazione’ del dolore dell’altro, che perde la sua umanità, che diventa solamente una vittima inerme da compatire. Questo è un approccio che molto spesso depoliticizza la realtà, nel senso ampio di politica come cosa pubblica, come interesse comune che riguarda tutti noi come società, e ci restituisce una visione dell’altro solamente subalterno.
Il progetto SHAPE (acronimo), con cui ho vinto questa borsa, e che si intitola “Sharing the Pronoun. Extreme violence, social resistance and the shaping of cultural memory in Spanish American contemporary documentary poetry” (Il pronome condiviso. Violenza estrema, resistenza sociale e costruzione della memoria culturale nella poesia documentale ispano-americana contemporanea), cerca proprio di analizzare questa contraddizione a partire dalla poesia.

In generale, analizzo una serie di opere poetiche documentali del XXI secolo che hanno come tema principale la violenza estrema nei confronti dell’altro in America Latina. Parlo di violenza istituzionale, desaparecidos in tempo di democrazia, violenza sui migranti, violenza di genere ecc. Con un approccio interdisciplinare che tocca la letteratura, la storia culturale e l’etnografia, cerco di scoprire in che modo la poesia contemporanea può parlare del disastro, del dolore dell’altro, senza cadere nel rischio di questa ‘cosificazione’. Mi chiedo da quale corpo e da quale voce la poesia può oggi parlare a partire dal disastro, ma in una forma che non sia solo quella della catastrofe e che possa anche aiutare a costruire immaginari per un futuro migliore? Nel contesto ispano-americano, che è quello che mi interessa di più, ma anche a livello internazionale, ha cominciato a farsi strada un tipo di poesia che è stata definita documentale, cioè una poesia che inserisce nel corpo del testo vari tipi di documenti, come documenti d’archivio, report etnografici, prodotti di internet, prodotti dei movimenti sociali, bibliografie, insomma tutti materiali che non sono stati creati dall’autore. Una poesia “intertestuale”, appunto, che lavora sulla relazione di testi diversi.

Non che questa in sé sia una novità, poiché il documento ha sempre fatto parte integrante della letteratura dalla notte dei tempi. La novità sta, però, nel fatto che questi autori hanno cominciato a inserire nel corpo del testo non soltanto l’informazione, cioè la storia in sé contenuta nel documento, che viene poi rielaborata nel testo letterario, ma anche il documento stesso come materialità. Questo modo particolare di lavorare mette fortemente in discussione l’IO poetico, crea un corto circuito estetico che mette in evidenza come la scrittura possa anche essere, in realtà, un processo plurale di costruzione, di cui fanno parte varie autorialità, varie voci. Nel caso specifico della poesia di cui mi occupo, la voce dell’autore e quella delle vittime di violenza. È chiaro, allora, che non mi sto più misurando solamente con l’estetica, ma anche con una dimensione etica e politica del linguaggio. La domanda è fino a che punto appropriarsi del dolore dell’altro, arrogarsi il diritto di raccontarlo, magari spettacolarizzandolo appunto, possa essere ancora una forma di potere, di violenza sull’altro? Come faccio a creare una poesia che non parli PER l’altro, ma parli CON l’altro?

La poesia documentale contemporanea sembra essere una risposta a questi quesiti. Tra gli autori che studio ci sono poetesse e poeti che lavorano con i documenti d’archivio dei sopravvissuti alla Shoah e rifugiati in Venezuela, per esempio, oppure con le testimonianze e i documenti giornalistici relativi alle violenze dei molti migranti che dal Sudamerica e Centroamerica viaggiano verso il Messico per provare ad entrare negli Stati Uniti e costruirsi una vita migliore, oppure ancora con le testimonianze dei “cocaleros”, ossia la contadine e i contadini che lavorano nei campi di coca della regione amazzonica del Caquetà, in Colombia.

Ecco, quello che voglio scoprire, lavorando a stretto contatto con le poetesse e i poeti del mio corpus, ma anche con i soggetti della loro poesia (il mio progetto prevede, infatti, anche che io vada in Colombia proprio a conoscere e a lavorare con queste comunità di contadini, per esempio) è come la letteratura possa rappresentare un lavoro di costruzione collettiva di una memoria culturale sulla violenza, come possa essere uno strumento di resistenza comunitaria e dunque un veicolo di cambiamento sociale. La mia missione, al di là dell’analisi testuale, è quello di spiegare all’Unione Europea e alle Istituzioni internazionali la vitale importanza di finanziare progetti cooperativi di questo genere, per fare fronte comune contro forme di violenza e razzismo che sono parte anche della realtà a noi più vicina. Io sono una ricercatrice, parlo da un luogo protetto che è quello dell’Accademia, ma per chi parlo? A chi parlo, se i soggetti di cui mi occupo, poi, nell’Accademia non trovano spazio?

Ecco, il tipo di poesia di cui mi occupo mi permette proprio di portare allo scoperto queste contraddizioni. Credo fortemente che questo sia uno dei grandissimi poteri delle Humanities, oggi tanto in crisi, ossia quello di accendere la luce sulle contraddizioni del mondo, in modo che non si possa più spegnere.

Cosa si intende per “intertestualità” ed in che modo la applichi nello studio della letteratura messicana precoloniale?

Con il concetto di intertestualità si fa normalmente riferimento all’idea che ogni testo non ha mai un senso per sé stesso, ma si trova sempre in relazione con altri testi e con i rispettivi contesti socioculturali a cui questi testi si riferiscono o a cui appartengono. Questi testi possono essere di natura letteraria o di altra natura, come materiali d’archivio, testi giuridici ecc. ecc. Detto così, può sembrare un discorso difficile e fine a sé stesso, anche noioso, ma questo concetto fondamentale ci mette davanti a un’altra questione, che ci riguarda tutti più da vicino, ossia il fatto che se un testo è sempre in relazione ad altri testi allora anche il linguaggio stesso, il nostro linguaggio e quindi quello che siamo, si costruisce in relazione agli altri. Se pensiamo questo, allora possiamo anche cominciare più seriamente a chiederci chi siamo davvero, da dove veniamo e quali relazioni hanno informato quella che è oggi la nostra identità. E se a partire da noi stessi, poi, provassimo a spostare questo discorso in una dimensione storica più ampia? Beh, sicuramente si potrebbe guardare in modo diverso a certi discorsi, politici e non, che tentano di proteggere una certa identità culturale unica e fissa che, in realtà, storicamente non è mai esistita e mai esisterà.

Nonostante il concetto dell’intertestualità sia stato meglio definito a partire dalla fine degli anni ’60 del XX secolo, grazie alla filosofa bulgara Julia Kristeva, in realtà è sempre esistito. Per l’America Latina questo concetto rappresenta, per certi versi, la base della nascita della sua letteratura, o quantomeno quella in prosa. Farei riferimento più al periodo coloniale che a quello precoloniale, ossia il momento successivo alla cosiddetta “Conquista”, in cui si cercava di costruire un nuovo assetto della società a partire dal trauma del violento scontro tra due mondi. Studiare la relazione tra i testi nel periodo coloniale ci aiuta a comprendere meglio la complessità di questo scontro culturale, a dargli una lettura non solamente estetica e tematica, ma anche etica e politica che ci permette non solamente di leggere gli effetti della cultura europea su quella latinoamericana, ma anche e soprattutto il contrario. E questo, ancora una volta, ci permette di ripensare la nostra tendenza a guardare l’altro solo come una vittima inerme, come si tende a fare con gli indigeni dell’America Latina, e cominciare a leggere con più attenzione le varie forme di resistenza che hanno messo in atto nel passato e che ancora mettono in atto, perché l’eredità del colonialismo non si è ancora esaurita, così come mai si estinguerà la resistenza indigena, che ha una storia secolare forte e complessa, da cui possiamo solo imparare.

Dall’Italia agli Stati Uniti. Ti consideri un cervello in fuga per necessità o per scelta?

Dall’Italia agli Stati Uniti non mi considero affatto un cervello in fuga. La prima ragione è che ho scelto di provare a prendere questa borsa di studio proprio perché mi dava la possibilità di tornare in Italia. In realtà, il mio contratto è di tre anni con l’Università di Venezia, mentre la University of North Carolina mi “ospita”, diciamo, per i soli primi due anni di questo percorso.

La seconda ragione è più complessa e provo a spiegarla. A volte, mi sembra come se questa narrazione del “cervello in fuga” sia molto imbevuta di retorica. Pensare che oggi, in un mondo sempre più connesso e globalizzato, un giovane che voglia fare esperienza all’estero sia necessariamente un ‘cervello in fuga’, che scappa da una assoluta mancanza di possibilità è un discorso pericoloso tanto quanto l’estremo opposto, ossia pensare che chi se ne va sia una specie di traditore. La costruzione del proprio curriculum all’estero, il misurarsi con dimensioni che non sono solamente quelle di casa propria, sono per me un passaggio fondamentale della formazione nel mondo di oggi, tanto più per quello di cui io mi occupo, ossia le letterature straniere appunto.

Questo non significa che non esistano problemi nel nostro Paese, in termini di riconoscimento del lavoro, di TUTTO il lavoro, ma significa provare a non averne una lettura troppo riduttiva o polarizzata. Il punto, semmai, è la mancanza di investimenti seri, a parte i pochi che già ci sono, per sostenere maggiormente questi scambi e farne un punto forte. Ora, che abbiamo un problema con la ricerca in Italia è palese, ma questo non dipende affatto soltanto dall’Università in sé, né dipende dall’incapacità in potenza dell’Università italiana di farvi fronte, ma dipende da una cosa banale tanto quanto fondamentale, la mancanza di fondi. Non è un mistero che siamo il Paese con i minori investimenti in istruzione e ricerca rispetto agli altri paesi europei, quindi dare fondi all’Università e alla ricerca è sempre prima una scelta politica.

Ci sono stati momenti della mia vita in cui ho scelto di lasciare l’Italia per andare all’estero anche perché in quel momento non vedevo possibilità, come è successo quando ho deciso di trasferirmi a Londra nel 2015, dove ho vissuto fino al 2019. Tuttavia, insieme alla difficoltà rivendico anche il mio desiderio di mettermi in gioco fuori dai confini del mio Paese. Tutto è concatenato e non so se, per esempio, avrei mai potuto vincere questa Marie Curie senza aver passato cinque anni della mia vita a Londra, ad acquisire fondamentali competenze. Più che un cervello in fuga, quindi, forse mi piace di più considerarmi un cervello in viaggio.


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Iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Puglia, ho iniziato a raccontare avventure che abbattono le barriere della disabilità, muri che ci allontanano gli uni dagli altri, impedendoci di migrare verso un sogno profumato di accoglienza e umanità. Da Occidente ad Oriente, da Orban a Trump, prosa e poesia si uniscono in un messaggio di pace e, soprattutto, d'amore, quello che mi lega ai miei "25 lettori", alla mia famiglia, alla voglia di sentirmi libero pensatore in un mondo che non abbiamo scelto ma che tutti abbiamo il dovere di migliorare.