L’art. 5 del    Code    Napoléon sancì che ai giudici è vietato pronunciarsi tramite disposizioni generali e regolamentari sulle cause che vengono loro sottoposte. La separazione dei poteri fu così realizzata.

Per quanto riguarda il sistema inglese di    Common    Law,  una specie di rapporto di sovraordinazione tra le norme è stata individuata già nel XVII secolo da Edward Coke e da altri autorevoli studiosi, i quali sostennero la tesi secondo cui il potere di legiferare da parte del Re non era assoluto, bensì limitato dalla legge divina o naturale ed anche dalla legge comune, ossia dal diritto consuetudinario del Paese.

Da tale limitazione, dovuta addirittura al carattere fondamentale e quindi superiore di princìpi non scritti, sarebbe derivato un controllo sugli atti del Parlamento, e talvolta una dichiarazione della loro nullità in caso di contrasto. Nel Novecento Norberto Bobbio ha definito questo assetto come un esempio di sistema giuridico con consuetudine superiore alla legge. Secondo una precedente scuola di pensiero, del XIX secolo, ed in particolare secondo il giurista inglese Dicey, nel Regno Unito non esisterebbe alcuna legge superiore e non sarebbe ammissibile alcun tipo di controllo giurisdizionale di costituzionalità, ma sarebbe vigente soltanto il principio di supremazia del Parlamento.

Nell’Europa continentale non anglosassone, generalmente, l’affermarsi dello Stato moderno accentratore ha cristallizzato progressivamente il meccanismo di subordinazione del diritto consuetudinario a quello legislativo, tanto nel momento interpretativo ed applicativo ad opera del giurista, quanto nel momento legislativo ad opera del legislatore.

Oggi potrebbe darsi per scontato che a configurarsi come fonti del diritto sono gli atti prodotti dal legislatore, ed in una posizione di subordinazione gli usi quali fatti normativi, comunque contemplati dal legislatore e mai validi se contrastanti con la legge. La gerarchia in senso stretto tra le fonti del diritto, in realtà, è stata una conseguenza della divisione dei poteri statuali, con la connessa disgiunzione delle funzioni applicative del diritto dalle distinte funzioni istituzionali di produzione delle norme.

Nel corso del Settecento si sono avute le battaglie e le riflessioni dottrinarie di matrice legalista, statocentrica, a favore della certezza del diritto e della divisione dei poteri dello Stato di montesquieuiana memoria, con il conseguente riassetto delle fonti secondo un ordine che vedeva la legge come unica fonte normativa-prescrittiva e la sentenza del giudice come un atto non normativo ma applicativo, e quindi subordinato alla legge. I tempi delle opinioni dei dottori e degli arresti giurisprudenziali quali materiali privilegiati per la risoluzione dei casi giudiziari, pertanto, erano terminati con l’avvento dell’età rivoluzionaria francese, e con l’istituto del “referè legislatif” nel 1790 nonché con la istituzione della Corte di Cassazione francese, entrambi tasselli che servirono a dividere i ruoli istituzionali, come anzidetto, già prima e propedeuticamente all’avvento del Codice. Il vero processo storico-giuridico in virtù del quale il principio di gerarchia delle fonti ha trovato il proprio ingresso istituzionale negli ordinamenti, però, è stato appunto il processo positivistico di codificazione scritta del diritto.

Il primo esempio di codice inteso in senso moderno, il    Code    civil    francese del 1804, all’art. 4 ha prescritto che se un giudice dovesse rifiutarsi di giudicare sotto pretesto di silenzio, oscurità o insufficienza della legge, potrà essere perseguito come colpevole di diniego di giustizia. Da ciò derivò il riconoscimento della completezza codicistica, tendenziale o assoluta e quindi più o meno mitizzata a seconda delle correnti di pensiero. L’art. 5 del    Code    Napoléon,  poi, sancì che ai giudici è vietato pronunciarsi tramite disposizioni generali e regolamentari sulle cause che vengono loro sottoposte. La separazione dei poteri fu così realizzata. Su questo filone, seppur con un impianto differente, seguì la codificazione civile austriaca del 1811 con il paragrafo 8 dell’ABGB, il quale prescrisse che al solo legislatore spettava l’interpretazione della legge in modo obbligatorio per tutti.


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Luigi Trisolino, nato l’11 ottobre 1989 in Puglia, è giurista e giornalista, saggista e poeta, vive a Roma dove lavora a tempo indeterminato come specialista legale della Presidenza del Consiglio dei ministri, all’interno del Dipartimento per le riforme istituzionali. È avvocato, dottore di ricerca in “Discipline giuridiche storico-filosofiche, sovranazionali, internazionali e comparate”, più volte cultore di materie giuridiche e politologiche, è scrittore e ha pubblicato articoli, saggi, monografie, romanzistica, poesie. Ha lavorato presso l’ufficio Affari generali, organizzazione e metodo dell’Avvocatura Generale dello Stato, presso la direzione amministrativa del Comune di Firenze, presso università, licei, studi legali, testate giornalistiche e case editrici. Appassionato di politica, difende le libertà e i diritti fondamentali delle persone, nonché il rispetto dei doveri inderogabili, con un attivismo indipendente e diplomatico, ponendo sempre al centro di ogni battaglia o dossier la cura per gli aspetti socioculturali e produttivi dell’esistere.