Amava come un angelo ama: i mercati, l’arenaria fossilifera, gli uomini che si dolevano e speravano, tutto esagerato.

Gli avevano assegnato quella strana città da tanto. Era un angelo solenne come gli alberi che crescevano ai bordi delle strade, con tronchi nodosi e cascate di fiori e foglie. Ogni tanto lo seguivano stuoli di simili che lo assecondavano in piroette e volteggi. Giocavano, facevano squadra, ma in fondo stare solo era pace. Si fermava nelle chiese ricche di tanto, sedeva con l’ala di lato che sui cornicioni non ci stava tutta.  Scene di antico e nuovo testamento, nomi e nomi, allegorie nell’oro musivo e nel blu cielo, tra lapislazzuli e pietre.  Freddo il marmo mischio, pensò. Quello a sfondo nero dei gesuiti era triste, ricordava i cappucci dei beati paoli. Più dolce il rosa nella chiesa di santa Caterina con lo stuolo di suore e badesse che continuavano a cantare nell’eco delle grate e dei passaggi nascosti.  Memoria di altri incanti, ben altra melodia. Che strani però gli uomini, pensava: anni ed anni a incastrare tessere, a fondere colori ricchi come la terra e il cielo e raramente qualcuno che si degnasse di vederlo e sorridergli. Non era così invisibile! Nell’oratorio di Santa Cita ci andava per i piccini. Puttini in carne coi piedini da baciare, i solletichi da fare, le coccole da mordere. Per caso i bombardamenti non l’avevano distrutto! Sorrideva sornione.

L’angelo non conosceva noia, la città gli piaceva e doverla presidiare era un onore. Quante teste erano passate sotto le sue giravolte, con corone, con lingue così diverse. C’era stato il tempo degli ebrei e quello degli arabi coi turbanti, i cristiani cattolici e ortodossi e sempre c’era chi guardava e non vedeva. Gli uomini, sempre loro, altro che dottrine o diottrie, hanno pupille murate spesso.

E che poteva farci, ridare vista ai ciechi non era sua abilità. Così si stropicciava il piumaggio antico e magari si distraeva un po’. A vedere la monaca mettere sgambetti sulle scale del teatro massimo, sorda come una campana, ad ascoltare il libraio declamare versi col tagliente accento tipico, a tirare code ai pronipoti di Bendicò. A fare smorfie ai bambini che ricambiavano.

Ogni tanto sapeva di dover assistere a ben altro. Quella era la parte a cui proprio non ci si abituava. Metteva una piuma nera sul cuore ed andava all’appuntamento camminando lentamente nelle strade. Quando arrivavano poi gli uomini in divisa, quando il frastuono di sirene e polvere intasava l’aria, allora poteva fare il suo.

Ne aveva raccolti di uomini il cui volto era poi dipinto a colori sul lungo muro. Il muro, sperava non fosse allungabile.

Amava come un angelo ama: i mercati, l’arenaria fossilifera, gli uomini che si dolevano e speravano, tutto esagerato.

Era quasi casa.

Ma c’era un posto che prediligeva. E così, come ogni giorno, dopo che il sole era sorto perfettamente incastonato nella porta d’oriente, aspettava il tramonto ad occidente. Volava veloce, sempre più veloce nelle quattro strade a bussola, guardava i monti attorno alla conca d’oro, sentiva il fiume scorrere nelle viscere della città, più veloce ancora. Arrivava col vento del mare nel centro esatto della piazza dei quattro canti, i cappelli volavano e, doppio salto misto, in un guizzo finalmente si tuffava.

Si tuffava in su.