Il 27 marzo sono andata per la prima prima volta al Teatro alla Scala di Milano. Lo racconto in differita di tre mesi perché a volte non conta l’hic et nunc, ma lo strascico nel tempo.
È una giornata mite, di quelle in cui il sole gioca a nascondino. Comincio a preparami nel pomeriggio prima di prendere il treno per Milano. Preoccupazione numero uno: abbigliamento. Apro l’armadio e cerco di pensare come uno spettatore tipo di questo genere di eventi mondani. Subito una serie di cliché: pellicce, papillon, tubini rossi, abiti lunghi con strascico, colbacchi, collane di perle. Penso che uno l’eleganza mica può improvvisarla e opto per pantaloni neri e camicia bordeaux. Il regionale Torino-Milano è affollato, sporco, e l’aria viziata sembra attaccarsi sulla pelle – tutto nella norma. Incontro Jacopo in Piazza Duomo. È la seconda volta che lo vedo, e lo riguarderei in loop, mi dice. Sorrido pensando che anche il più temerario degli spettatori faticherebbe a vedere 3 ore e 40 dello stesso spettacolo in loop. Soprattutto se si tratta di un’opera lirica.
Il foyer è pieno di gente. Il ticchettio dei tacchi delle donne fa da ouverture all’opera di Monteverdi. Guardo i miei stivaletti neri. Bassi. Senza tacchi. Prendo un caffè prima di entrare. All’ingresso le maschere e le hostess hanno il tabarro e una spilla con un simbolo che non sono riuscita ad identificare.
Prendiamo posto in seconda galleria. La visuale non è il massimo e siamo costretti a seguire lo spettacolo in piedi (beati ricconi in platea! Sì, perché i teatri sono tra i pochi posti che ci tengono a sottolineare le differenze sociali. Non puoi barare con un bel vestito).
Prima che si apra il sipario un po’ di coordinate storico-contenutistiche:
- L’Incoronazione di Poppea è un’opera lirica di Claudio Monteverdi datata al 1648, scritta da Busanello.
- La vicenda narra degli intrighi amorosi e politici ai tempi di Nerone. Nerone e Poppea, sua amante, lottano per coronare il loro sogno d’amore, mai scisso dalla fame di potere, provocando la morte del consigliere di Nerone, Seneca, e l’esilio da Roma della moglie legittima di Nerone, Ottavia.
- Robert Wilson è uno dei più grandi registi viventi, punto.
Quando il sipario si alza, l’immagine è un quadro: la luce blu, tipica di tutti gli spettacoli di Bob Wilson, riempie la scena. La scenografia è minima. Per tutto lo spettacolo si alternano sulla scena elementi che assurgono a simboli: un albero, delle colonne argentate, una testa di statua riversa per terra si ergono, statici e isolati, come monoliti, sulla scena, a raccontare pezzi di assoluto.
Gli attori, anch’essi congelati in pochi gesti, completano la scenografia. Recitano con la voce e con le mani: la caratterizzazione di ognuno dipende, infatti, da ciò che cantano e dal modo in cui muovono le mani. Ma sono mani che non toccano, private della loro funzione intrinseca, per essere canali di racconto visivo.
La Poppea di Wilson è un susseguirsi di tableaux vivent, in cui la passione del testo di Busanello e delle musiche di Monteverdi collidono con l’apparente stasi registica. Ma è dalla collisione che nasce l’esplosione. Un esempio pratico: nella scena finale Nerone e Poppea, liberatisi dagli ostacoli che si frapponevano tra di loro, sono finalmente liberi di vivere il loro sogno di amore e potere. I due entrano in scena intonando il meraviglioso duetto finale che recita così:
Pur ti mirò, pur ti stringo,
pur ti godo, pur t’annodo
più non peno, più non moro,
o mia vita, o mio tesoro.
Io son tua, tuo son io.
Speme mia, dillo dí,
l’idol mio, tu sei pur.
Sì mio ben, sì mio cor, mia vita, sì.
Insieme si avvicinano al proscenio, le mani dell’uno su quelle dell’altra, che però, ancora una volta, non si toccano, ma creano uno spazio d’aria. Ma è in quello spazio che tutto esplode: passione, amore, potere, ma anche ambizione e interessi individuali.
L’Incoronazione di Poppea di Robert Wilson è un’architettura di Mies van der Rhoe, è un racconto di Carver, è un taglio Fontana, è uno spazio da riempire.
Quando l’opera sta per finire mi accorgo del tempo che è passato. Mi tocco le gambe indolenzite e formicolanti e dò un ultimo sguardo alla scena, prima che il sipario cali. Solo allora mi rendo conto di una cosa fondamentale: sul palcoscenico, Poppea e Nerone, prima ancora che assetati di potere e potenti imperatori di Roma, sono uomini, schiavi del più umano dei sentimenti: l’amore.
Guardo in basso. C’è qualcosa di insopportabilmente triste in quella platea sbrilluccicante, che in un atto disperato di competizione con la bellezza dell’arte, sfoggia i migliori abiti. C’è qualcosa di insopportabilmente triste nei volti illuminati dalle luci della scena. Io in quella platea ho visto la disperazione degli uomini che tentano di affermare uno status, dimenticandosi che prima di essere incasellati in un ruolo, sono incasellati nel destino di essere uomini.
Ma, in fondo, il posto è bello, illuminato bene, e io starei lì in loop.