A proposito del Leopardi filosofo maledetto, di Pierpaolo Lauria,
In questi momenti non idilliaci per le sorti dell’umanità intera può avere un certo senso assumere come punto di riferimento la figura di Giacomo Leopardi preso integralmente però, con tutto il suo corredo esistenziale, filosofico, scientifico, letterario e linguistico; non si deve avere il timore di esagerare nel trovare anche nel suo ‘alfabeto’, come viene fatto in una serie di articoli apparsi su ‘Odysseo’ a proposito di Dante, una risorsa inaspettata per cercare di avere un’arma in più nell’interpretare le diverse rugosità del presente che stiamo subendo. Ci può essere d’aiuto in tale tentativo un agile volume di Pierpaolo Lauria, Leopardi filosofo maledetto, (Milano, Mimesis 2015), che offre un percorso in grado, sulla scia di quei non molti lavori già orientati in tal senso nell’ampia letteratura critica, di capire meglio la piena dimensione filosofica del Leopardi e anzi di considerarlo una volta per tutte filosofo tout court, se non il maggiore dell’intero Ottocento italiano; e non solo per la stessa importanza raggiunta a livello europeo, del resto questo già confermato, com’è noto, dall’attenzione rivolta nei suoi confronti da figure del calibro di Schopenhauer e di Nietzsche, ma perché il suo pensiero, come risulta nettamente dallo Zibaldone e non solo, si è basato programmaticamente su quella che viene chiamata da Lauria ‘promiscuità tra poesia e filosofia, un adulterio in piena regola, uno scandaloso, abominevole ed osceno accoppiamento’. Vengono inoltre esaminate le ragioni per le quali esso è apparso e può apparire tale ‘agli occhi dei puristi dell’uno e dell’altro genere’, infortuni non di poco conto in cui è caduta quella linea interpretativa del trio De Sanctis-Croce-Gentile, prevalente in Italia fra ‘800 e ‘900 e per motivi contingenti legata per lo più a questioni di egemonia culturale, per avere scisso Leopardi in due, più consistente considerato il versante poetico ma sempre con riserva e sino ad un certo punto e quasi nullo quello teoretico-filosofico.
Ma il nucleo concettuale di fondo del suo essere filosofo in tutte le diverse articolazioni è perché, come viene ben messo in evidenza da Lauria nel denunciare anche le volute deformazioni e omissioni a cui il pensiero leopardiano è stato sottoposto, viene riscontrato nel fatto che la ragione umana si rafforza quando “scuopre il vero” là dove esso si annida dalla poesia alla scienza, come viene ben magistralmente e con una non comune forza teoretica delineato nello Zibaldone. Questo permette di liberare Leopardi da interpretazioni nichilistiche, di entrare nel suo pensiero definito per natura ‘labirintico’ e che nello stesso tempo e per scelta è asistematico proprio per la ricchezza di proposte messe in campo non inquadrabili in una cornice ben definita in quanto proposte frutto di una esperienza di vita non scissa dove il pensiero si nutre della rugosità e dei drammi del reale: ‘non c’è nessun cedimento o inclinazione all’irrazionale, mentre è presente il programma rivoluzionario di un’alleanza tra immaginazione e ragione, tra cuore e intelletto. Qui Leopardi, installando il cuore nella ragione, va oltre Pascal e le ragioni del cuore’. Per questo si può considerarlo un ‘cuore pensante’ sia della tragicità di certa modernità che ante litteram della complessità della nostra contemporaneità, per usare una bella ed efficace espressione di Hetty Hillesum scritta su un foglietto lanciato dal finestrino del treno che la portava ad Auschwitz, dopo aver vissuto con intensità il campo di concentramento nel tentativo di dare un senso a tale tragica esperienza.
Si potrebbe usare per l’oggi, ad esempio, fra le tante una metafora del suo alfabeto, sempre frutto dell’alleanza dei singoli contributi di verità che hanno attraversato la sua esperienza e che sono entrati nel suo vocabolario concettuale, l’espressione ‘strazi della materia’ o ‘cangiamenti della materia’ per indicare da una parte gli strazi in cui in questi giorni ci stiamo avvinghiando come esseri viventi e dall’altra come intera comunità umana; non sarà dunque un caso se un secolo più tardi il gesuita Teilhard de Chardin, scienziato-filosofo francese, userà lo stesso termine ‘strazi della materia’ nell’Inno alla Materia per indicare lo stato di sofferenza universale come condizione generale per poter poi aspirare al suo superamento e al cambiamento qualitativo delle forme di vita in ogni campo da quello biologico a quello sociale e culturale. In tale espressione leopardiana, poi entrata nel lessico di altre figure del mondo contemporaneo con l’identico significato di fondo però arricchito dal senso dato alle proprie esperienze di vita, possiamo riconoscerci in quanto stiamo vivendo uno strazio immane che nessuno voleva, che coinvolge in toto la nostra ‘materia’ di esseri umani.
Se la materia vivente ha avuto una lunga storia, molto più lunga di quella specificatamente umana, di strazi che l’hanno sconvolta durante i milioni di anni, è anche il campo dove ogni strazio subìto è stato nello stesso tempo foriero di un nuovo mondo, di una nuova vita con inedite forme; possiamo trarre da questo ottimismo implicito nella materia un elemento per far venir meno un po’ del pessimismo della ragione, per parafrasare una famosa espressione di Antonio Gramsci, che oggi ci attanaglia e, pur inchiodandoci allo strazio del presente, porta uno spiraglio per il futuro. Nello stesso tempo costringe ad essere ognuno di noi nel suo piccolo, un ‘cuore pensante’ della situazione in cui ci troviamo immersi e cioè di viverla cercando di trovare un senso là dove proprio esso non sembra esserci; ma le situazioni drammatiche che l’umanità ha vissuto sulla propria pelle ci insegnano proprio questo ed il pensiero di Leopardi come espressione degli strazi della sua anima può essere un umile percorso orientato in tale senso.