La capienza del tino era tale che non poteva contenere quell’uva da macerare: quella che il ragioniere Asprigno ne ricavava, da quel piccolo fondo che aveva in contrada, “Pozzo della Pera”.

A ogni annata, per il ragioniere, si rinnovava il problema, poiché era costretto a chiedere in prestito un altro tino a causa del quale egli si doveva scappellare con degli zotici, come lui stesso usava definire i contadini.

Era da questi che lui si rivolgeva affinché gli prestassero un recipiente extra poiché il suo, al caso, non gli bastava.

Il posto dove Asprigno faceva il vino era l’antro sotto la scala: quella che dal basso portava al piano superiore.

Era un vano angusto e ingombro di masserizie, cianfrusaglie e attrezzi vari, ma era lì che preparava il “laboratorio” per distillare quel nettare di cui solo lui ne andava fiero.

Il vino, piuttosto che farlo altrove, dove non avrebbe potuto tenere la cosa sotto controllo, se lo preparava proprio lì, creando non pochi problemi a sua moglie.

Il ragioniere era un povero diavolo, ma non in arnese, anzi lui teneva più soldi e comodità di quei “zotici” cui andava, di volta in volta, secondo le sue necessità, a chiedergli quel che gli bisognava, poiché era incline a risparmiare i suoi soldi: non per nulla era contabile.

Asprigno non era il suo vero nome, ma un appellativo che la gente del paese gli aveva accollato proprio perché era aspro nel carattere, ma forse anche con qualche piccola e maliziosa allusione al vino che produceva.

Lui si chiamava Paniccia, ma da quelle parti era il soprannome che contava più del nome: era più indicativo per riconoscere la gente.

Era un tipo meticoloso, l’Asprigno, ma non tanto da capire i problemi nella loro pienezza.

Lui, a forza di usare la sua perfezione su di un determinato problema, il più delle volte si distraeva dalla tegola che gli rovinava addosso.

Era così che ogni anno, per quel beato mosto, egli si procurava non pochi grattacapi.

La preventiva e meticolosa pulizia dell’antro, quella dei recipienti e quella dell’imbiancatura che lui era costretto a praticare a ogni vendemmia, non gli aveva aperto alcun orizzonte. Se solo avesse avuto più accortezza, facendosi bene i conti in tasca, giacché era ragioniere, certamente gli sarebbe rimasta appiccicata qualche lira in più.

Tra i soldi spesi per la coltivazione e il mantenimento del fondo, il tempo che lui stesso dedicava e le arrabbiature che si faceva con quegli incompetenti di contadini, avrebbe certamente comprato il miglior vino sul mercato. Ma non solo. Lui avrebbe fatto pure bella figura con i suoi commensali, quelle volte che li invitava a casa, offrendo loro un buon bicchiere al posto di quel miscuglio che era solito produrre.

Era risaputo in giro e se ne parlava tutto l’anno del vino che produceva il ragionier Asprigno. Lui non osava controbattere alle dicerie, anzi affermava che bevendosi una pinta del suo si faceva così passare il mal di fegato. Quello che gli procuravano gli altri, intendeva. Non si rendeva conto che era proprio quel vino che gli rovinava, non solo il fegato, ma lo stomaco e la stima del vicinato.

Con certezza bisogna affermare che il fondo “Pozzo della Pera” produceva dell’ottima uva. Ne avrebbe ricavato dell’egregio vino, il ragioniere, se non avesse avuto il problema del “risparmio”.

Il prezzo di un pessimo aceto era di lungo inferiore a quello di un ottimo vino: a parità di costi, s’intende, poiché l’aceto che produceva il ragioniere, in fatto di costi, risparmi a parte, gli veniva a costare più di un buon vino d’annata.

Era il mille-novecento-sessantaquattro, un anno veramente eccezionale per la vendemmia, con l’uva che aveva tutte le buone caratteristiche per la riuscita di un eccellente vino, poiché proveniva dalla contrada “Pozzo della Pera”.

Aveva incominciato già nei primi giorni di settembre a prepararsi, il ragioniere, chiedendo a destra e a manca gli attrezzi che gli mancavano per la vinificazione della sua uva. Lui aveva pure liberato il limitato tugurio dagli oggetti che, durante l’anno, si erano accumulati. Di questi, lui aveva fatto una cernita e si era liberato di quelli inutili.

Si sa che ogni cosa va guardata da diverse prospettive per inquadrarla meglio. Non sempre il proprio punto di fuoco corrisponde con quello dell’altro. Il peggio succede quando due persone vivono insieme e si urtano continuamente preferendo lo stesso spazio, tralasciando gli altri, liberi e inviolati.

La cernita che praticava il ragioniere cadeva sempre sopra gli oggetti di sua moglie, pronto a scartarli.

Il peggio era che lui, la moglie, la informava fatto avvenuto, ossia quando si era liberato della roba che, secondo lui, era inservibile e l’aveva buttata oppure regalata.

Teresina usava risparmiare qualche soldo di nascosto del marito.

Il frutto di quel risparmio lei era solita nasconderlo fuori del raggio nel quale operava il ragioniere, ma sempre in posti diversi.

Questa volta aveva nascosto quel gruzzolo in una cappelliera vecchia, dove c’era un suo cappello in disuso e che non aveva più indossato poiché passato di moda.

Il marito lo aveva regalato a un rigattiere dimenticandosi che era un regalo fatto da lui alla moglie: un omaggio prezioso che il cenciaiolo aveva raccolto insieme all’altra cianfrusaglia.

Asprigno aveva chiesto un tino di legno a un contadino, suo vicino di casa, ottenendolo, ma ahimè! Le toghe del recipiente a causa che erano rimaste al sole tutto il periodo estivo, erano diventate lasche, perciò bisognava riempirlo d’acqua, quel tino, per stagnarlo.

Era un periodo che l’acqua mancava: causa della siccità e così si adoperava anche quella di cucina dopo che la moglie aveva lavato le verdure e lessato la pasta.

In ogni modo il fusto fu messo in sesto ed era pronto per l’uso, solo quel tanfo che emanava non convinceva Asprigno e si consigliò con chi gliel’aveva prestato. Ma questo, dopo averci messo dentro il naso da intenditore, alla pari di un provetto sommelier, sentenziò: -Ragionié… può andare…cosa volete di più? Avete un bel tino stagno e capiente… potete fare tutto il vino che volete e aggiunse, – quest’odore di muffa che si sente scomparirà non appena ci metterete dentro la vinaccia: lavatelo ancora una volta e non vi preoccupate!

Il ragioniere non si convinse per niente e si consigliò con sua moglie Teresina la quale gli disse che ci avrebbe pensato lei a togliere quell’odore di muffa, e il ragioniere non ci pensò più.

Teresina sapeva che contro la muffa non c’era antidoto migliore della candeggina: se ne procurò un litro intero, prese una scopa vecchia di giunchi di palude e lavò il tino al marito.

Il legno beve e s’impregna alla pari di un beone che si abbevera di tutto, solo che la candeggina levando quell’odore di muffa l’aveva fatto da padrona: essa ne aveva occupato il posto, sostituendo il vecchio tanfo con il suo.

Fu in quel giorno che Teresina si dedicò alla lavatura del tino, che si rese conto della scomparsa di quel suo occasionale salvadanaio, la cappelliera.

Si era subito alterata e si era messa a cercarla, senza trovarla. Aspettò che rientrasse suo marito per chiedergli spiegazioni. Non gli avrebbe mica raccontato di quei soldi buttati lì alla sua insaputa: non voleva creare dei precedenti e farsi scoprire di quella mania che lei aveva.

Il ragioniere, ritornando a casa, avvertì che l’aria era impregnata di candeggina, ma non ci fece caso: sua moglie la adoprava pure in cucina, ma solo per lavare il pavimento, lui lo sapeva.

Come al solito, Asprigno tornava a casa nell’ora di pranzo, pure questa volta e, dal modo come salutò Teresina, lasciò intendere a questa che non spirava buon vento, ma la moglie azzardò: -Sei stato morsicato da uno sciame di vespe oppure il fisco ti ha fatto visita in ufficio per guardare tra le tue carte?

Il marito non rispose subito, ma si limitò a guardarla. La guardò come farebbe un cane legato in giardino, con il postino che suona al cancello. Dopo questa pausa lui le rispose: -Niente vespe oggi, nemmeno i segugi dell’erario di Stato si sono fatti vivi -, poi, con un brusco movimento del capo, sbatté contro lo stipite della porta che risuonò con un tonfo sordo e aggiunse -Tu te la prendi comoda, ma non sai che quei fottuti incompetenti, quei villani cantastorie, quei piantagrane che ci ritroviamo intorno, non hanno più voglia di lavorare? -Di chi stai parlando, ora? Apriti meglio! Sii più chiaro, perbacco! Già ti capisco poco quando sei normale, figuriamoci quando sei impazzito. Così rispose la moglie, anche lei stizzita pensando alla cappelliera con dentro i suoi risparmi. Lei voleva chiedere grazia a suo marito per farsi dire dov’era finito il cappello, mentre lui si presentava a pranzo con quella faccia irata e chissà per quale ragione.

Si toccava la testa dolorante: si rivolgeva ancora contro i contadini, il ragioniere, lamentando che quei bifolchi, ogni anno che lui doveva vendemmiare la sua uva,  avevano sempre da fare e lo portavano in campana, a proprio piacimento.

Intanto il rigattiere si era reso conto di quel sostanzioso e inaspettato tesoro e aveva preso il volo: se n’era andato a Molfetta con la moglie Maria a far visita a una sua figlia maritata, dopo aver fatto grossa spesa presso un negozio del paese, liberandosi pure di qualche debito che aveva in giro.

Il titolare del negozio si confidò con una cliente e questa pensò a divulgare la notizia che Razzino, così era il nome del cenciaiolo, aveva vinto al lotto e si stava togliendo i debiti che aveva contratto.

La cosa giunse all’orecchio del ragioniere il quale si limitò a dire che pure gli spazzini, alla fine, si arricchiscono, ma non sapeva ancora di essere stato lui l’artefice di quella fortuna. Razzino, da povero diavolo com’era, si era ritrovato nelle mani un risparmio senza mai averlo praticato.

-Hai sentito cosa si sta vociferando in giro? -, chiese Asprigno a sua moglie intanto che questa gli stava versando della minestra bollente nel piatto, poi aggiunse: -A pensare che proprio l’altro ieri, dopo che io l’avevo chiamato per farmi ripulire il sottoscala, lui si lamentava che le cose andavano male e che si era indebitato a destra e a manca. Teresina restò lì per lì per svenire e lasciò cadere il mestolo pieno di minestra bollente sulla mano destra del marito che teneva stretta la posata per dare la prima cucchiaiata.

L’urlo che emise il ragioniere fu avvertito fino in piazza, perfino il cane volpino del vicino, gli fece il verso e si mise a ululare.

-Ohio, ohio! Quanto male! Quale bruciore! Quale sofferenza mi tocca sopportare con una iena come te! Maledetta miseria! Ma cosa ti viene in mente di farmi questi sconci? Guarda che cavolo mi ha combinato! -, e le mise sotto il naso, la mano arrossata, sgocciolante di legumi e verdure, mentre Teresina sembrava divertita da quella scena.

-Vuoi levarmi di torno, forse? Oppure hai pensato di mandarmi all’ospedale con lo scopo di non farmi tagliare l’uva, quest’anno? …scordatelo! Teresina non parlò, ma si diresse verso la cucina e riapparve subito dopo con un catino pieno d’acqua.

Invitò il marito a immergere la mano nell’acqua tiepida e quest’ultimo la poggiò dentro il catino, ma diede un salto sulla sedia poiché già apparivano le prime vescicole.

La moglie prese pure una pomata e dopo avergli asciugato la mano bagnata, gliela spalmò, ma senza tanta delicatezza: altri urli, altri improperi!

Teresina aveva una pena per quel mucchietto di soldi che si era vista sfilare di sotto il naso, ma non osava fiatare con il marito, altrimenti chissà cosa ne sarebbe venuto fuori, col carattere che lui aveva…

I giorni che seguirono l’incidente, in casa Paniccia non si parlavano più: ognuno per proprio conto. Era come un confessionale senza il penitente, un film senza sonoro.

Era proprio da girare un film su quei due, tanto erano caratteristici nei loro ruoli di tutti i giorni. Lei perspicace ma, non perdonava le offese, lui irascibile e per nulla socievole.

Arrivò il giorno della vendemmia e l’Asprigno era più nervoso del solito: aspettava gli sviluppi della giornata per definirne la qualità, già erano le cinque del mattino e i due contadini, quelli che lui aveva ingaggiato la sera prima, non si vedevano ancora.

Arrivarono quando incominciava ad albeggiare. Il cavallo tra le stanghe del carretto con sopra il tino vuoto, sembrava non avesse dormito da qualche mese, tanto era lento nei movimenti.

Il vetturino, però, non dava segno migliore del suo animale. L’altro operaio, a quell’ora del mattino, sembrava avesse fatto già giornata, facendo veglia al bebè che non prendeva sonno. -Siamo a posto! -, pensò il ragioniere, -non male come inizio!

Arrivati in campagna, si perse un po’ di tempo prima d’incominciare: al cavallo gli fu servita della biada, mista col fieno. Il carrettiere incominciò a mangiare dell’uva e l’altro cavò dalla tasca della sua giacca un filone di pane e dall’altra dei pomodori da spremerci sopra, e fecero banchetto, intanto che il ragioniere si spazientiva.

Il cavallo se ne stava fermo sulle zampe. Solo il rumore della masticazione aveva fatto capire al ragioniere che l’animale non dormiva. Anche le scudisciate che l’animale tirava con la coda, ora su di un fianco e subito dopo sull’altro, per scacciare gli insetti, gli davano qualche forma di vita.

Il carrettiere aveva poggiato una scala a pioli di legno sulla ruota destra del carro, in modo che si potesse salire per rovesciare i piccoli recipienti, man mano che questi si riempivano, nel tino posto sul carro. Dopo due ore circa di lavoro il tino si era riempito a metà e già si notava il mosto che ne fuoriusciva da alcune toghe scollate.

Sotto ogni perdita si poneva un recipiente in modo da non fare sprechi di mosto, ma il cavallo, dopo che era rimasto tanto tempo fermo, si era stancato e incominciava a picchiare con la zampa sul tratturo: era anche lui impaziente.

L’Asprigno era salito sulla scala per rendersi conto della capienza del fusto. Mancava poco alla fine del taglio e voleva controllare quanta uva c’era nel tino. Mise un piede in fallo e stava per cadere quando, per lo spavento gli scappo un: -Oh! – Non l’avesse mai pronunciata quell’esclamazione perché il cavallo, non se la fece ripetere un’altra volta e partì. Partì facendo scivolare la scala col ragioniere sopra, il quale rovinò come un sacco di patate sull’erba del tratturo, bagnata di mosto e misto alle urine dell’animale.

Il ragioniere se l’aveva cavata con qualche escoriazione e tanta paura ma nulla di più.

Il cavallo si era fermato subito al comando del suo padrone che era intervenuto all’istante.

Solo il mosto che si era raccolto nei vari recipienti, era andato perso, mentre ne continuava ancora a cadere dal tino mal stagnato.

Giunti alla casa d’Asprigno si prepararono per pigiare l’uva, ma uno dei due contadini arricciò il naso per quel tanfo di candeggina che ancora aleggiava nel vano. L’angusto vano era rimasto chiuso da qualche giorno. Il contadino azzardò: -Ragionié cos’è questa puzza? -, l’altro gli rispose, – … e tu la chiami puzza questa? Bada alla tua-, e continuò: -è solo odore di candeggina e quindi sa di pulito… è stata mia moglie che avrà lavato il pavimento… sbrighiamoci piuttosto! L’operaio non fiatò, ma nemmeno si convinse della risposta avuta, perciò si mise a vuotare il fusto che stava sul carro mentre l’altro pigiava l’uva levando i graspi: altro sciupio di mosto, altre inzaccherate, sia sul pavimento e sia sulle pareti del vano.

I tre, a lavoro ultimato, avevano riempito i due tini d’uva pigiata, ma si vedeva poco succo: molto se n’era perso per strada.

Teresina aspettava l’occasione per scaricarsi della bile che si era formata a livello di viso, poiché era diventata gialla e aspra più del marito, con il quale, fino allora lei aveva mantenuto le distanze.

I due contadini se n’erano andati e l’Asprigno stava mettendo in ordine gli attrezzi di lavoro quando entrò Teresina e notò che la stanza era piena zeppa di moscerini e, senza dir nulla al marito, andò nell’altra stanza, prese lo spruzzatore col DDT e incominciò a fare strage di quei fetenti bastardi, come lei li definì. Il marito si limitò solo a guardarla: era stanco di vederla col broncio.

Sembrava che a ogni nuvola di quegli insetti che morivano ne arrivassero due per i funerali: il mattino dopo non si poteva nemmeno entrare nel basso talmente era invaso.

L’annata mille-novecento-sessantaquattro doveva essere una delle migliori, ma fu un vero disastro per il ragioniere e sua moglie Teresina poiché, una a causa della “ricca” cappelliera e l’altro con una produzione d’aceto nauseabondo, si ritrovarono insieme a farne le spese. Il ragioniere promise alla moglie che non ci avrebbe provato più a fare il vino e glielo dimostrò vendendo il fondo di Pozzo della Pera. La moglie si promise di non mettersi più a far risparmi di nascosto del marito e così misero pace in famiglia, ma durò poco. Una domenica mattina i due decisero di recarsi in chiesa per ascoltare messa: fu lì che successe il fatto, dentro la chiesa. Due file di banchi avanti a loro c’era seduta la famiglia Razzino al completo: erano ben vestiti e la moglie indossava un cappello a tesa larga, sopra un tailleur grigio perla. Teresina diventò livida e dalla stizza guardò il marito che non si era accorto di nulla perché assorto: forse a pregare o forse pensava a come avrebbe riempito la giornata senza l’hobby dell’aceto.

13/novembre/2003


FonteFoto di Towfiqu barbhuiya su Unsplash
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Salvatore Memeo è nato a San Ferdinando di Puglia nel 1938. Si è diplomato in ragioneria, ma non ha mai praticato la professione. Ha scritto articoli di attualità su diversi giornali, sia in Italia che in Germania. Come poeta ha scritto e pubblicato tre libri con Levante Editori: La Bolgia, Il vento e la spiga, L’epilogo. A due mani, con un sacerdote di Bisceglie, don Francesco Dell’Orco, ha scritto due volumi: 366 Giorni con il Venerabile don Pasquale Uva (ed. Rotas) e Per conoscere Gesù e crescere nel discepolato (ed. La Nuova Mezzina). Su questi due ultimi libri ha curato solo la parte della poesia. Come scrittore ha pronto per la stampa diversi scritti tra i quali, due libri di novelle: Con gli occhi del senno e Non sperando il meglio… È stato Chef e Ristoratore in diversi Stati europei. Attualmente è in pensione e vive a San Ferdinando di Puglia.