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Un fondo che diventa sorgivo, una fossa dalla quale risorgono le cose sotto una luce nuova

L’istinto è sempre quello di sviarle, per non bagnarsi senza motivo ovviamente. Certo, a volte bisogna subirle: perché l’acqua non defluisce bene, e le strade diventano veri e propri torrenti da attraversare alla meglio; o perché l’autista frettoloso di turno le prende in pieno bagnando da capo a piede lo sfortunato passante.

Parlo delle pozzanghere, quei fastidiosi ristagni d’acqua piovana che rendono una camminata sotto la pioggia ancora più disagevole di quanto già non lo sia: acqua dal cielo, acqua dalla terra, forse non si era circondati da così tanta acqua dai tempi della gestazione nel grembo della mamma. Sarà capitato a tutti, almeno una volta nella vita, di tornare a casa completamente fradici. E la cosa non è piacevole, soprattutto se si trascorrono diverse ore con i vestiti bagnati addosso.

Eppure una pozzanghera, qualche volta, andrebbe scrutata a fondo, contemplata.

All’inizio la percezione ottica è confusa in una gamma di colori dal grigio al marrone: mescolati, indistinguibili, sembrano inseguirsi man mano che un colpo di vento o di altro smuovono l’acqua. Dopo qualche secondo, però, è possibile scorgere in quello specchio naturale l’immagine di ciò che ci circonda: le case, gli alberi, i lampioni, le scritte illuminate dei bar, il cielo, le nuvole. Noi stessi.

Certamente ciascuno desidera ben più di una pozzanghera come specchio. Eppure ogni tanto fa bene specchiarsi nelle lacrime della terra, ritrovare i contorni, le forme, le fattezze nei postumi di una giornata piovosa, lasciare che le foglie e i rametti, adagiati con armonia confusa lì intorno, intersechino il riflesso del nostro volto.

C’è tanto in una pozzanghera: una vita segreta di immagini riflesse a modo proprio, restituite a suon di fragranze autunnali, umide, fresche, terrose. La parola è legata a “pozzo”, una voce di non chiara origine nel dizionario: deriverebbe dal latino “poto”, ossia “bere”; altri riconnettono il termine alla radice PU-, che suggerisce l’idea di spingere fuori; per altri ancora l’origine andrebbe ricercata nel greco “bythòs”, “fondo”, “fossa”.

In fondo una pozzanghera è tutte queste cose, a patto ovviamente che ci si conceda cinque minuti di pura osservazione: è un fondo che diventa sorgivo, una fossa dalla quale risorgono le cose sotto una luce nuova e attraverso sfumature inedite. Come quando nella vita il fondo lo si tocca per davvero, eppure i ristagni di sudore e di lacrime diventano specchi inaspettati nei quali reimparare a guardarsi e a guardare, e scorgere il proprio volto dopo la distruzione, per essere sicuri di essere ancora vivi e di poter ripartire.

E se l’idea di bere risulta assurda, dovremmo considerare la possibilità di colmare un’altra sete, quella del senso che ci ostiniamo a cercare da un solo, povero punto di vista, mentre una pozzanghera, invertendo le cose come qualsiasi superficie riflettente, smuovendo la fissità delle cose con sottili vibrazioni acquose, rimescola le idee e ci invita a riconsiderare presunte certezze, direzioni, posizioni, rigidità.

Così anche da un intruglio di fango scaturisce il meglio e la bellezza zampilla con naturalezza. Dovrebbe saperlo ogni uomo, plasmato con polvere del suolo, fango e alito di vita (Cf Gn 1 e 2), nobilissima materia, insondabile miracolo.

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FontePhoto credits: Michela Conte
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Sono un'insegnante, anche se il più delle volte sono io quella in-segnata dai miei studenti. Sono una ricercatrice, perché cerco piste di rilevanza pubblica per una materia troppo fraintesa e troppo di nicchia: la teologia. Sono una giornalista e faccio cose con le parole. "Quello che non ho è quel che non mi manca" (F. De André) e sono immensamente grata alla vita perché, non senza impegno e sacrificio, "ho trovato amore nel mezzo de la via, in abito legger di peregrino" (Dante Alighieri, Vita nova)