Un bacio. Un ultimo e fragile bacio sulla guancia del suo compagno di morte.

Un bacio. Al compagno di morte. In un luogo come il carcere di Tegel, dove tutto è violenza, sopruso e ingiustizia, un condannato a morte dona al suo compagno l’ultimo e potente gesto intriso di umanità che una persona possa compiere prima di essere decapitato. Poi, dietro una scura tenda che separa la luce dalle tenebre, ecco il buio, la disperazione e la morte.

È l’ultimissima scena del film La Vita nascostadel regista americano Terrence Malick. Il lungo racconto della vita di un giovane contadino che non si piega davanti al folle governo del Terzo Reich, che non cede alle lusinghe di una guerra sanguinosa e sporca come tutte le guerre, che non china il capo davanti alla violenta ingiustizia di chi, per affermare la supposta potenza del proprio stato, calpesta e uccide prima la dignità e poi la vita di milioni di esseri umani, la cui colpa è solo quella di essere nati, come ci ricorda ancor oggi la senatrice Liliana Segre.

Un film il cui grido di dolore non può essere taciuto né dimenticato. Tra le fila della storia del protagonista, che è costretto a lasciare la giovane moglie, le sue tre figlie ancora molto piccole e l’anziana madre, si insinua prepotentemente il dubbio che forse, ancora più delle violenze fisiche, nuoce all’anima del protagonista: perché continuare ad opporsi al regime nazista? Quello che succede qui nel carcere, rimane qui e non varcherà la porta. Chi si ricorderà di te quando ormai sarai morto? Dopo di te il mondo andrà avanti sempre allo stesso modo; pensi che il tuo comportamento possa cambiare qualcosa?

Un continuo susseguirsi di domande che sollecitano continuamente la coscienza di Franz e la nostra. E poi ancora il dubbio che nasce dalla fede e grida nell’anima del credente: dopo duemila anni abbiamo bisogno di un Dio forte, non di uno che è morto sulla croce, da perdente e fallito. Perché continuare a credere in un Dio crocifisso?

E poi il dramma della giovane moglie che, rimasta sola, insieme alla fatica della vita dei campi e della povertà che ogni guerra porta con sé, deve subire l’umiliazione dei suoi concittadini che la guardano con disprezzo, che per strada la schivano perché moglie di un traditore. Una vita serena interrotta dalla guerra, un sogno di felicità spezzato dal dolore della solitudine e dalla disperazione della prigionia.

Accanto alla storia, protagonista è anche la colonna sonora del film, per lo più tratta dal repertorio della musica classica (Dvorak e Beethoven) e sacra (Bach e Arvo Part). Così i passi nel lungo e cupo corridoio del carcere sono accompagnati dalle note della Passione secondo Matteo di Bach, a suggerire forse che la passione di quel Cristo crocifisso ingiustamente duemila anni fa si rinnova nella vita del protagonista.

Un film dunque che dev’essere visto, anche solo per non dimenticare quanto avvenuto poco più di settant’anni fa. Vengono in mente le parole di un altro prigioniero del carcere di Tegel, il teologo protestante D. Bonhoeffer, che denuncia con franchezza quanto il silenzio sia complice del male: «Sono tempi malvagi, quelli in cui il mondo tace l’ingiustizia, quelli in cui l’oppressione dei poveri e dei miseri provoca un forte grido rivolto al cielo che lascia indifferenti i giudici e i potenti; quando le comunità perseguitate e sofferenti chiudono aiuto al cielo e giustizia agli uomini e sulla terra nessuna voce si leva per difendere i loro diritti. (…) Quando la bocca dei padroni del mondo tace per ingiustizia, le braccia si preparano a compiere azioni malvagie».