Il ‘’bit’’ è l’unità di misura del sistema informatico che ha rivoluzionato per sempre le nostre vite, vite manipolate da macchine pensanti in grado di calcolare dettagliatamente le nostre azioni, sensazioni inquadrate nella logica matematica del progresso evolutivo.

Progredire e rinascere dalle proprie ceneri, custodire nel cassetto dei ricordi i drammi di una guerra devastante che però, per assonanza o allitterazione, riformattarono le coscienze popolari sostituendole con l’aggettivo ‘’beat’’ o con computer di ultima generazione.

La Beat Generation salì alla ribalta nel 1950 e con essa venne alla luce anche il catartico rifiuto per le norme imposte e per il materialismo, ostentando, invece, esplicite rappresentazioni sulla condizione umana. Fu Herbert Huncke ad introdurre per primo il neologismo ‘’beat’’ derivante, probabilmente, dalla cultura afroamericana, quella che, stanca ed affannata,, cercava di sacrificarsi per rovesciare il valore semantico di questa parola, attribuendole connotazioni positive di ottimistica beatitudine.
Già, rovesciare i canoni prestabiliti per affermare la propria libertà, quando essere diversi significava essere guardati con sospetto, quando l’ossessione della bellezza abbandonava le sue meravigliose romantiche inquietudini divenendo solo un piccolo dettaglio, una sfumatura marginale.
Gli indimenticabili anni che vanno dal ’62 al ’67, dalla morte di Marylin Monroe alla fine di Che Guevara, erano pure recite a soggetto, pièce teatrali, lo spettacolo prima dell’utile, del necessario. Ogni artista aveva urgenza fisica di sentire il suo pubblico addosso, perciò amava spalmare il proprio talento sul palcoscenico, qualunque esso fosse. Erano tempi in cui nulla odorava di banalità. La cravatta senza nodo, i mocassini con le frange, tutte stravaganze estetiche che approdavano verso il sessantotto, verso le università occupate, verso le bandiere bruciate.
Nella sana ribellione dell’epoca c’era l’ansia di partecipare al fermento di una generazione che subiva una delle accelerazioni più violente dal dopoguerra, una generazione che sfuggiva ogni tipo di omologazione, il gusto di massa, e rivendicava il diritto di respirare libertà. Era la morte del bigottismo ingessato e conservatore dal quale, finalmente, fuoriusciva un nuovo dna fatto di globuli rossi e cellule eversive che scorrevano in cittadini apolidi, alieni, irregolari.
Ciascuno si esponeva con chiarezza nel proprio ambiente e, pur senza sermoneggiare, comiziare o arringare, ogni parola aveva un sapore fortemente politico. Si disponeva di quella sensibilità e di quella forza comunicativa che consentivano di porsi sulla stessa lunghezza d’onda dell’universo giovanile. L’immaginazione si ritrovò nel pragmatismo della creativa minigonna di Mary Quant, nelle note della ‘’Like a Rolling Stone’’ di Bob Dylan o di ‘’Yesterday’’ dei Beatles.
E, mentre i primi marines cadevano in Vietnam, Malcom X inveiva contro le ingiustizie razziali, a dimostrazione di quanto Eraclito si fosse sbagliato a non preventivare che, tra il perpetuo scorrere degli eventi, il sentirsi intellettualmente arretrati è il tratto stilistico che non passerà mai di moda.