
«Non per far, ma per non fare ho perduto
a veder l’alto Sol che tu disiri
e che fu tardi per me conosciuto»
(Purgatorio VII, vv.25—27)
Siamo ancora nel secondo balzo dell’Antipurgatorio e assistiamo al colloquio tra Virgilio e Sordello: il primo finalmente si presenta, il secondo è colto da meraviglia, tale è la grandezza del suo interlocutore.
Eppure Virgilio anticipa quello che è un po’ il tema del canto ovvero la negligenza:
«Non per far, ma per non fare ho perduto
a veder l’alto Sol che tu disiri
e che fu tardi per me conosciuto»
(Purgatorio VII, vv.25—27)
In altre parole, se l’autore dell’Eneide non è in paradiso non è per quello che “ha” fatto, quanto per ciò che “non” ha fatto, sì da perdere la possibilità di vedere Dio, l’alto Sol. Verrebbe da obiettare che non è certo colpa di Virgilio se non ha potuto conoscere l’annuncio evangelico, essendo egli morto prima che Cristo nascesse, ma si sa che Dante, in quanto a prospettiva storica, è pur sempre figlio del suo tempo …casomai più problematica appare la posizione di quanti, nel ventunesimo secolo e a più da sessant’anni dal Vaticano II, ragionano ancora come se fossero nell’Alto Medioevo.
Ma torniamo a Sordello il quale chiarisce la legge della ascesa al Purgatorio: le anime purganti sono libere di muoversi a loro piacimento, eccetto quando cala la notte per non rischiare di perdersi vagando senza meta. Suggerisce perciò di sostare in una valletta fiorita, rilucente di mille colori e ricavata nell’incavo di un monte, un luogo adatto per trascorrere la notte. I tre poeti non sono soli e Sordello spiega che davanti a loro è la schiera dei principi negligenti che intanto intonano il canto della Salve Regina.
Raggiunto un ripiano elevato, Sordello passa a presentare in coppie alcuni dei nomi più illustri: Rodolfo I d’Asburgo e Ottocaro II di Boemia, nemici irriducibili in vita, riconciliati ora; seguono Filippo III l’Ardito e Enrico I di Navarra, rispettivamente padre e suocero di Filippo il Bello; ancora, Carlo I d’Angiò e Pietro III d’Aragona, morti entrambi nel 1285, anche loro avversari accaniti in vita e ora capaci di cantare all’unisono; la quarta e ultima coppia è quella di Enrico III d’Inghilterra e Guglielmo VII del Monferrato, apparentemente non legati da alcun vincolo specifico.
Il tema dominante è la polemica nei confronti del malgoverno dei dominatori terreni e, di contro, la leggerezza d’animo di chi si è liberato dalle brame effimere. Vien da pensare che l’unico modo di gestire saggiamente il potere sarebbe quello di usarlo come se non lo si avesse: non per servirsene ma per servire, mai dimenticando che non c’è potere, per quanto grande, che non sia temporaneo, transeunte, limitato. Esattamente come finita e fragile è la vita di ogni uomo.
Utopia, si direbbe. Oppure, per l’appunto, riflessioni degne di chi, proprio come i principi nella valletta, si è liberato…
Chissà che non fosse questa la “perfetta letizia” a cui aspirava Francesco, il poverello d’Assisi.
Prima di lui, Marco Aurelio: «Vivi nella più perfetta letizia e senza sentirti legato o costretto da alcunché, anche se tutti ti urlassero dietro a più non posso».
E poi Leonardo da Vinci: «Siccome una giornata bene spesa dà lieto dormire, così una vita bene usata dà lieto morire».
Ai nostri tempi, don Tonino Bello: «Amate la vita, perché lì è perfetta letizia: non tanto nell’essere amati ma nell’amare. Ricordate che non essere amati non è una tragedia; è il non amare la tragedia. E perfetta letizia sta nel servire, non nell’essere serviti. Questa è la sapienza: da “sapere”, sapore, gusto, sale. Questo è il sale della vita: amare!».