Una scuola di qualità punta a trarre il massimo da ciascuno

L’anno scolastico è ufficialmente avviato e per nove, lunghi mesi docenti e alunni si ritroveranno gomito a gomito. Nove mesi: una gestazione, un cammino con un traguardo che è una ripartenza, perchè mira a rendere qualcuno capace di vivere da solo. E sulla parola dobbiamo intenderci.

La capacità di un recipiente è connessa al suo vuoto, indica quanto esso può contenere. Per cui una persona capace è quella che sa svuotarsi, che scava dentro di sé e aiuta gli altri a farlo per accogliere sempre meglio il mondo. È un atto di coraggio e la scuola non può esimersi dal prenderlo seriamente in considerazione. Di abili certamente si ha bisogno. Ma quando il saper essere irrora il sapere e il saper fare, tutto cambia. L’efficienza, insomma, è relativa.

Nel mondo antico la “scholè” era il luogo dell’“otium”, dello studio libero dagli impegni e dagli affari quotidiani, i “negotia”; dunque un’oasi per pochi, affrancata dall’imperativo categorico del fare e dalla mercificazione. Oggi la scuola è diventata un bene comune. E menomale! Ma nella misura in cui il baricentro del lavoro didattico viene spostato dalla nozione e dall’abilità alla capacità, si può sperare di conservare qualcosa della scholè antica.

La scuola è i suoi in-segnanti. Un insegnante capace in prima persona scava dentro di sé, si svuota e si riempie ogni giorno. Studia, impara, cerca, prende spunto onestamente dagli altri. Non è un tuttologo, che magari parla senza farsi capire pur di essere adulato, ma un comunicatore intento a donare, anche a costo di dire “non lo so” e di farsi piccolo. L’in-segnante lascia un segno sempre, nel bene e nel male. Quello capace lo incide con il fuoco della sua passione, tangibile, affascinante, coinvolgente ma sempre autorevole: egli infatti resta nel suo ruolo, in equilibrio sull’asimmetria di un patto educativo che perde di qualità sia nelle derive amicali sia nella distanza gelida.

La scuola è i suoi alunni, tutti, quelli bravi, autentici o egoisti, e quelli meno bravi, senza voglia o possibilità. Una scuola di qualità non tratta tutti allo stesso modo: nella favola dell’uguaglianza molti restano inesorabilmente indietro. Una scuola di qualità punta a trarre il massimo da ciascuno, a creare persone capaci di umanità, di camminare da sole, di andare oltre quello che l’insegnante “è tenuto a dare”, di amare la cultura e di scoprire la portata esistenziale dello studio, fino al punto da ritenere deleterio il dualismo teoria-pratica.

La scuola è anche i genitori, chiamati a fidarsi di essa, nella consapevolezza che in qualsiasi relazione rientra il rischio della delusione e che diventare adulti significa caricarsene il fardello e affrontare le circostanze di volta in volta. Si tratta di non crollare di fronte alle incoerenze degli insegnanti, né di fronte alle inadempienze dei figli, industriandosi fino allo sfinimento per dimostrare più un’impeccabilità familiare di facciata che una fisiologica, salutare crisi. Ma tutto parte da lontano: se dai figli ci si aspetta la conferma della propria bravura si faticherà molto ad accogliere ogni intervento educativo, perché ci si sentirà giudicati e lesi nella propria abbagliante immagine. Si reagirà con veemenza e chiusura. E ci si impoverirà, tanto.

Dolly, una delle protagoniste in Anna Karenina, desta lo sconcerto di Levìn: ella, che si relaziona ai figli secondo le mode perchè «aveva deciso che, anche a scapito della sincerità, bisognava istruirli in quel modo», crolla inesorabilmente quando si accorge della loro maleducazione in casa. Capisce che «quei suoi bambini, di cui lei andava così orgogliosa, non soltanto erano bambini come tutti gli altri, ma anche bambini cattivi, con inclinazioni volgari». Levìn dal canto suo si ripromette: «No, io non mi metterò a posare con i miei bambini. Bisogna soltanto non guastare, non deformare i bambini, e saranno deliziosi».

E allora un augurio alla scuola tutta, insegnanti, alunni e genitori, perché insieme possano abbandonare ogni azione o pretesa deformante e puntare a scavare capacità come garanzia di ritrovare la forma giusta, la forma dell’accoglienza e del dono, la forma della sete, la forma umana.

Controsenso: usi e abusi delle parole quotidiane

leggi gli altri articoli di controsenso


3 COMMENTI

Comments are closed.