Un luogo comune molto in voga oggi recita più o meno così: “sui libri puoi studiare quanto vuoi, è la vita, l’esperienza a formarti veramente”.

Un luogo comune molto in voga oggi recita più o meno così: “sui libri puoi studiare quanto vuoi, è la vita, l’esperienza a formarti veramente”.

Il riduzionismo e l’ambiguità di questa affermazione sono eclatanti, eppure passano per buoni in una società nella quale predomina un “senso pratico” che si sente minacciato dalla cultura, magari solo perché è troppo pigro e abituato all’immediatezza per accogliere la lentezza tipica dei processi di apprendimento. Il fare è frainteso: “l’enfasi posta sul primato dell’azione induce a considerare il pensiero e la parola come processi effimeri e opzionali; la tendenza è quella di porre in antitesi il potere dell’agire con quello del riflettere” (A. Lolli – S. Massironi – S. Petrosino, La sfida dell’unicità).

Leggere un libro oggi è faticoso nella misura in cui è difficile, nell’era della tuttologia alla scuola del web, sentirsi bisognosi di conoscere ancora o, addirittura, accettare la sfida di entrare in qualcosa di sconosciuto.

Già, davanti ad un libro si dovrebbe stare come si sta davanti ad una persona: assetati di conoscerne la bontà e consapevoli dell’impossibile riduzione del mistero che è. È l’anticamera del rispetto. E ogni relazione lo esige.

È giusto ed importante che chi non ha potuto o voluto studiare ed ha forgiato la propria formazione nel fuoco delle esperienze della vita e del duro lavoro, ricordi a chi invece passa gran parte della giovinezza e della vita sui libri l’importanza di tradurre il proprio sapere in uno stile quotidiano improntato alla bellezza, al dono, alla relazione. Quando la cultura riesce a stimolare questo miracolo allora si può parlare di sapienza: essa è un sapere aperto, connesso con la vita, consapevole dei propri limiti e sempre pronto ad arricchirsi. La sapienza sa rimanere senza risposte, perché sa che l’autenticità si nutre di domande, anche a costo di continue crisi e di sembrare non proprio preparata e padrona di sé e del mondo. La sapienza sa come e dove fermarsi ad ascoltare, le interessa crescere e sa che per farlo ha bisogno dell’autorità (da augère, accrescere) di altri saperi, di altri volti, di altre esperienze. La sapienza “sa di non sapere”.

Al di fuori di tale modello subentra la “saccenza”: preparata di sicuro, intellettualmente ineccepibile, ma sicura di sé fino alla sfrontatezza, sempre in corsa per fagocitare cose nuove, incapace di fermarsi entro i limiti propri e altrui e, al contempo, stagnata nella sicurezza di sapere di tutto e di più. La “saccenza” non ha bisogno di relazionarsi, né di ascoltare, né di crescere. Ha in odio le domande e chi gliele suscita, perché in fondo ha paura della sua stessa incapacità di mettersi in discussione.

Ecco, in questo caso è salutare una totale inversione di rotta, assieme ad un richiamo al necessario risvolto esistenziale dell’accademismo.

Ma non sarà quel luogo comune a risolvere la situazione!

Urge abbandonare il dualismo che vede contrapposti la teoria e la pratica.

Coltivare la sapienza attraverso un profondo amore allo studio è un atto di pratica ineguagliabile e una valida scuola di vita. Lasciarsi toccare, performare e trasformare dalla cultura implica necessariamente la messa in atto di uno stile di vita fatto di serenità, apertura, dialogo, confronto, scontro, possibilità inedite, sconfitte e limiti accolti. Questo (e molto di più) è l’uomo e la sapienza forma uomini di carne capaci di solcare la storia con profondità di vedute e intelligenza di azione.

Si è liberi di continuare a credere alla leggenda di una politica senza lauree, di un insegnamento senza aggiornamento, di una scuola senza libri, di un senso civico senza formazione, di una fede senza intelligenza. Si è liberi di lasciarsi affascinare da questa favola.

Bisogna farlo, però, nella consapevolezza che la pratica non è esente dalla deriva della “saccenza”: c’è una presunzione di vita, convinta di poter dare lezioni dall’alto delle proprie esperienze, uniche ed irripetibili, chiusa nella propria pochezza, perfettamente eguagliabile alla precedente.

Nella saga di Harry Potter l’antagonista, il folle Voldemort, sogna di vivere per sempre: fin da studente, brillante e preparatissimo, egli declinava questo assurdo desiderio nel predominio sugli altri. Per portare avanti i suoi piani si intrufola continuamente tra i corridoi di Hogwarts, la scuola dei giovani maghi, e arriva ad assediarla: egli, come ogni dittatore della storia, vuole agire sulle menti e sulla loro istruzione, ma crolla al cospetto del potere performante di questa. La sua “saccenza” si scontra, infatti, con la sapienza del preside Albus Silente, del professor Severus Piton e del testardo e coraggioso Harry Potter, disposti a morire per un bene superiore, dell’impacciato Ron, amico fedele fino all’inverosimile, della brillante, intelligente, astuta Hermione e di tanti altri. Al momento dell’assedio professori e alunni si coalizzano per proteggere la scuola, in una commovente scena di complicità che fa riflettere su quanto essa sia diventata casa, quella casa nella quale la pratica non è un esperimento a tentoni della teoria, ma ogni cosa appresa arriva dritta al cuore e lo spinge all’amore come unica possibilità di realizzare l’esistenza.

Questa magia è necessaria…!

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Sono un'insegnante, anche se il più delle volte sono io quella in-segnata dai miei studenti. Sono una ricercatrice, perché cerco piste di rilevanza pubblica per una materia troppo fraintesa e troppo di nicchia: la teologia. Sono una giornalista e faccio cose con le parole. "Quello che non ho è quel che non mi manca" (F. De André) e sono immensamente grata alla vita perché, non senza impegno e sacrificio, "ho trovato amore nel mezzo de la via, in abito legger di peregrino" (Dante Alighieri, Vita nova)