Don Michele Pace sceglie le pagine di Odysseo per raccontarsi attraverso gli occhi vispi di ragazzi a cui fa da insegnante e guida spirituale.

La sua esperienza romana come Assistente Nazionale del Movimento di Azione Cattolica ci aiuta a tracciare il quadro clinico di tradizioni clericali plurisecolari che, ormai, vengono superate da adesioni giovanili più coerenti alla modernità della fede. La disamina introspettiva che ci offre disegna, perfettamente, il percorso di un uomo di Chiesa che abbraccia, anche, e non solo, laicamente, il progresso.

Ciao, Don Michele. Da quasi due anni sei Assistente Nazionale del Movimento Studenti di Azione Cattolica. Come ti approcci all’idea che i giovani hanno di Gesù e, più in generale, delle istituzioni ecclesiastiche?

Ho sempre pensato e vissuto il mio sacerdozio, e quindi anche il mio essere attualmente Assistente Nazionale del Movimento di Azione Cattolica, come un “compagno di strada” dei fratelli e delle sorelle che il Signore mi ha posto e mi porrà ancora accanto. Questo significa pensarmi, parafrasando le parole di Sant’Agostino, con i fratelli credente, per i fratelli sacerdote. Andando sul concreto, questo vuol dire sentirmi sempre in cammino come tutti i credenti in Cristo e quindi crescere insieme nell’amore di Cristo attraverso la Chiesa. Tale atteggiamento lo considero ancora più importante nell’accompagnare responsabili e aderenti di un movimento che si volge verso un ambiente laico, quale quello della scuola. Questo significa accompagnare i giovani studenti a quella che, spesso, è una vera e propria “riscoperta” di Cristo e della Chiesa, magari dopo un tempo in cui il cammino di fede ha subito un momento di crisi; partendo non dall’annuncio esplicito del Vangelo, ma partendo dalle loro domande di vita. Ritengo che, soprattutto nell’adolescenza, sia importante accompagnare le domande inscritte nel cuore di ciascun ragazzo. Sono domande importanti sul senso della vita,  sulla verità della relazione, circa valori spesso traditi come la giustizia e la pace. Questo poi diventa motore per un impegno concreto per gli stessi giovanissimi ad essere, a loro volta, testimoni, verso i loro coetanei nella scuola, della bellezza del credere. La cosa bella è vedere come il Signore opera meraviglie, entrando, attraverso l’impegno di tanti ragazzi e ragazze, nei cuori di tante persone che vengono attirate dalla quella passione per Cristo e per la Chiesa che passa semplicemente da uno stile di vita che profuma di Vangelo. 

A microfoni spenti mi hai confidato dell’esigenza di far conoscere il lavoro di tanti ragazzi che, quotidianamente, si spendono per una scuola “diversa: dal basso”. A cosa vuole sottendere questa nuova prospettiva religiosa?

Oggi c’è una tendenza diffusa ad abitare le istituzioni, in generale, non solo in maniera passiva, ma anche con quel fare lamentoso che non apporta nessun contributo positivo per il benessere dell’istituzione stessa. Questo è diffuso, spesso, anche tra i giovani. Un atteggiamento, se è comprensibile per tante ragioni, non va certamente a vantaggio della costruzione del bene comune. Io personalmente ritengo che una delle motivazioni più forti di questo disimpegno è il luogo comune secondo cui il benessere delle istituzioni dipenda solo da chi le governa. L’esperienza del Movimento Studenti di Azione Cattolica parte dalla convinzione contraria, ovvero che il benessere della scuola dipende anzitutto dall’impegno di chi la abita ogni giorno, e quindi anche degli studenti. Prendersi cura della scuola, che significa prendersi cura prima di tutto delle persone che la compongono ma anche vivere responsabilmente le strutture che la compongono, è il modo concreto attraverso cui i ragazzi e le ragazze del movimento esprimono il loro essere credenti. Prendersi cura della scuola significa prendersi cura della propria vita e della vita del paese in cui viviamo. Questo inoltre diventa per molti ragazzi palestra di cittadinanza, ciò che la scuola dovrebbe essere ma spesso tradisce come finalità. Ma diventa anche per gli stessi ragazzi un modo concreto per imparare che la fede non è altro dalla vita concreta o che l’essere credenti non si consuma in maniera semplicistica nell’impegno all’interno di una comunità religiosa.

Mescolando insegnamento e sacerdozio ti sarai, certamente,  ritrovato di fronte a realtà difficili. In che modo, secondo la tua decennale esperienza, i dogmi del cattolicesimo classico hanno lasciato spazio ad una mistica più intima tra l’individuo e la fede?

La mia piccola esperienza su diversi fronti sia a livello di impegno sia di ampiezza territoriale, mi porta a ritenere che l’emergere di una fede vissuta spesso in maniera intimista o individualista non sia tanto legata alla non accettazione dei dogmi del cattolicesimo classico o tradizionale, quanto soprattutto alla non accettazione della mediazione che la Chiesa fa degli stessi dogmi. La tendenza è quella a costruirsi una fede fai da te, talvolta più a livello di prassi che di pensiero. L’esempio più evidente di questo è la contestazione in atto, tutta interna alla Chiesa, del magistero di Papa Francesco, il quale non sta facendo altro che reinterpretare i dogmi della fede cattolica alla luce del contesto culturale attuale, per rendere l’annuncio cristiano sempre più vicino alla vita dell’uomo contemporaneo. Certamente la Chiesa, che vive nel mondo, risente lei stessa dei cambiamenti culturali in atto. Di conseguenza in una società sempre più segnata da un individualismo e da una chiusura nel privato della persona anche nella Chiesa si respira la stessa aria. La Chiesa, dall’altro lato, potrebbe essere promotrice nella società di un’opera educativa che miri a creare un tessuto sociale più coeso.

Dopo aver guidato tre comunità parrocchiali di Andria come vicario parrocchiale, come giudichi questa esperienza romana?

Senza la pretesa di voler tracciare un bilancio dell’esperienza di Assistente Nazionale di AC a metà percorso, considero questa esperienza semplicemente “diversa” rispetto alla precedente. Diversa per vari aspetti. Anzitutto per ampiezza, in quanto il ministero attuale mi sta permettendo di avere una visuale più ampia rispetto al contesto ecclesiale nazionale. Sta risultando davvero interessante, infatti, conoscere realtà ecclesiali decisamente diverse rispetto alla nostra diocesi. Di non minore importanza è la possibilità che sto avendo di potermi confrontare con persone provenienti da diversi contesti geografici e culturali che stanno certamente arricchendo la mia formazione umana e ministeriale. Un’altra differenza sostanziale è nella tipologia del servizio che mi viene chiesto. Se nel primo caso si trattava di guidare, insieme con i parroci che ho affiancato, la vita delle comunità parrocchiali. In questo caso si tratta invece di affiancare tanti i laici di Azione Cattolica a fare discernimento sulla vita associativa e sul contesto culturale e sociale nel quale si vivere la propria fede. Il filo comune che lega le due esperienze è quello dell’accompagnamento spirituale di tanti giovani desiderosi di fare insieme con me un percorso di crescita nella fede. Tuttavia considero entrambe le esperienze come un dono prezioso che Dio ha fatto e sta facendo alla mia vita. Un dono immeritato. Un dono che accolgo ogni giorno con emozione in quanto segno del grande amore di Dio per me.

Qual è il confine che divide un giovane credente dall’essere lo strumento o il fine di un messaggio impregnato di amore cristiano?

Il confine è segnato da una domanda: per chi o per cosa lo sto facendo? Il rischio dell’idolatria è sempre presente nella nostra vita, il rischio cioè di sostituire Dio con qualche altra cosa. Spesso sostituiamo Dio con il nostro ego. Quando accade questo, si rischia di confondere lo strumento con il fine. Devo dire, con grande sincerità, che l’AC, quando è vissuta con serietà e generosità, è una palestra importante da questo punto di vista. Il fatto che le responsabilità siano “a scadenza” aiuta i soci e noi assistenti a non sentirci l’alfa e l’omega di tutto. Questo posto spetta solo a Dio.

Cos’è per te Dio?

Per la mia esperienza e per il mio cammino questa domanda non è la più corretta. La domanda giusta, per me, è un’altra: chi è per te Dio? Sì, perchè per me Dio è una persona, e si è manifestato pienamente in Gesù Cristo, Figlio di Dio e Fratello nostro. Per me, parlare di Dio e di Gesù Cristo è la stessa cosa. Ultimamente, però, un’immagine guida la mia vita spirituale, quella di Cristo sposo della Chiesa. Questa immagine mi sta guidando molto nel rileggere il mio sacerdozio, in quanto immagine di questa sponsalità di Cristo. Tuttavia mi vado convincendo sempre di più che davvero il Dio unico si sia manifestato in diversi modi attraverso quelle che sono le “grandi vie” delle religioni. Questo vuol dire che davvero tutti coloro che cercano con cuore sincero la verità hanno la possibilità di incontrare e conoscere Dio.

Progetti futuri?

Quello più personale di portare a compimento il mio percorso di studi in Dottrina Sociale della Chiesa ed etica pubblica presso la Pontificia Università Gregoriana. Un percorso che mi sta arricchendo molto e che mi sta portando ad immaginare percorsi ed esperienze da poter attivare un giorno, se ritenute utili a partire da un discernimento comunitario, nella nostra realtà diocesana. Quello relativo al ministro che sto svolgendo è di poter aiutare altre realtà associative diocesane ad attivare gruppi di studenti di Azione Cattolica per essere missionari nella scuola. Non perchè ci si possa gloriare dei numeri sempre più rilevanti, ma perchè ogni giorno mi accorgo di quanto questa esperienza da alla vita di tanti ragazzi in giro per l’Italia.