«Qui vive la pietà quand’è ben morta; 
chi è più scellerato che colui 
che al giudicio divin passion comporta?»

(Inferno, vv. 28-30)

Siamo nel canto dedicato agli indovini, nella quarta bolgia, e devo dire che Dante è tutt’altro che tenero con loro: li immagina camminare lentamente a ritroso, loro che avevano preteso di precorrere i tempi, con collo e testa torti all’indietro, loro che millantavano di poter guardare avanti fin nel futuro.

Lo scenario è talmente innaturale, l’immagine divina nell’uomo è a tal punto distorta, che Dante scoppia in lacrime e si becca il pronto e aspro rimbrotto di Virgilio: la pietà è morta all’inferno, specie quando si tratta di avere compassione per chi ha voluto forzare la mano a Dio, per chi ha affermato di conoscere il suo “giudicio”, sconosciuto persino agli angeli.

Il canto si dipana in tre sezioni: la presentazione di indovini antichi – Anfiarao, Tiresia, Arunte, Manto –, la lunga digressione sull’origine di Mantova, patria di Virgilio, la ulteriore elencazione di indovini – Euripilo, Michele Scotto, Guido Bonatti, Asdente – fino alla stoccata finale alle

«triste che lasciaron l’ago,
la spuola e ’l fuso, e fecersi ’ndivine;
fecer malie con erbe e con imago»

(vv.121-123),

dove Dante ci appare un tantino misogino e se la prende con le donne che, invece che dedicarsi ad ago e filo, si son fatte fattucchiere.

Esperti della Divina Commedia spiegano che la condanna senza mezzi termini dell’astrologia non va presa in senso assoluto – tutta la Cantica del Paradiso è imperniata su schemi astrologici tipici dell’epoca medievale – e aggiungono che, ancora al tempo di Dante, l’astrologia era considerata una vera scienza. Piuttosto, concludono, lo stigma di Dante è per quanti si arricchiscono ingannando gli uomini e spacciandosi per conoscitori del futuro.

Sarà. Ma non è su questo che si è focalizzata la mia attenzione. La quale, invece, è stata fulminata proprio dalle parole di Virgilio: Qui vive la pietà quand’è ben morta, …cioè mai!

Mi è tornata alla mente una polemica celebre e famigerata per i cultori della materia. Mi riferisco alle presunte dichiarazioni di un noto teologo, Hans Urs von Balthasar, secondo cui l’inferno esiste, ma sarebbe vuoto, dichiarazioni poi smentite, riprese, contestualizzate, ecc. ecc.

Ora, checché se ne dica, mi chiedo, che male c’è a “sperare contro ogni speranza”, per dirla con l’apostolo Paolo? È proprio vero: non conosciamo il futuro, nessuno è tornato dalla morte per dirci se ci attenda il nulla eterno oppure una vita, e che sia bella o brutta, o ancora una reincarnazione.

Nondimeno, temo l’uomo che abbandona la speranza. Mi gela un Dante che uccide la compassione. Perché la pietà non può morire mai. Neanche all’inferno.

Poi, però, mi ricordo che lui per primo prova pietà per Paolo e Francesca, ammirazione e rispetto per Farinata, quasi venerazione per Ulisse e mi dico: va bene, ha voluto stupirci, ma non ci crede fino in fondo neanche lui. Così come son convinto che gli piacessero le donne, altroché se gli piacevano: chiedere a Beatrice… E qui mi taccio.

Un impertinente Peter Ustinov: «Io l’inferno lo immagino così: la puntualità italiana, l’umorismo tedesco e il vino inglese».

Un solidale Mark Twain: «Non mi piace l’idea di andare o in Paradiso o all’Inferno, perché ho amici in entrambi i luoghi».

E un devoto Blaise Pascal: «Preferisco un inferno intelligente a un paradiso stupido».

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