“Non giudicare sbagliato ciò che non conosci, prendi l’occasione per comprendere”
(Pablo Picasso)
In un momento che la tenerezza t’incalza, ti prende per mano e sembra che voglia condurti, approfittando del tuo stato disponibile e dimesso, laddove gli incontri hanno valori indefiniti, imbevuti, per i più, di vaghezze e di metaforismi malati, di pensierose immagini, di lascivi insulti, ecco che si apre un sipario su un mondo di equivocità, gratuitamente e cattivamente espressa, sul “diverso”.
Questo accade nei momenti in cui si travisa la vera natura della gente e della loro “innocente colpevolezza”: responsabilità intrinseca ad un dato di fatto naturale, di madre natura? È qui che subentra una luce, oltre una tenda rimossa e che illumina, di qualche verità, le tante, sfumate fantasie espresse da un perbenismo, a dir poco, affettato e, al medesimo tempo, permaloso e urticante.
Appare timido, in tutta la sua consapevolezza, il pudore del proprio stato, di omosessuale, o di menomazione fisica se esacerbato dalla continua, ostinata incomprensione dei più, alimentata dall’ignoranza, vestita di etica presa a nolo, da mal pasciuta, degenerata ipocrisia.
La grazia del pensier gentile traina, però, il peso dell’eterna, distorta visione, pur accusandone, invero, la grave, gratuita liceità, presa da certune menti, auto-discolpate da ogni responsabilità oggettiva, fatta di inamidati principi e di surrogate distorte visioni dell’altro.
Quale determinazione, quale conseguenza se ne potrà trarre da sì tali gufi, improvvisatesi pensatori, predisposti all’ostracismo intellettivo e all’intemperanza sedimentata, come rimasugli rancorosi, cattivamente imputriditi da una visione distorta di una realtà evidente, il tutto messo a fuoco da madre natura?
Corre in mezzo agli occhi la realtà di quel che siamo. Ma intanto la si lascia accompagnare da una tale indifferenza con la disumana incoerenza, nel peso della sostanza, aggravata con noncuranza, a scapito del nostro simile.
Nei casi in cui si mirano orizzonti lontani mantenendo lo sguardo sulle punte dei propri piedi, nulla si scorge oltre lo spazio occupato dai medesimi e la fattura di essi, mentre si perde in sé l’infinito che Dio ci ha messo a disposizione per un equilibrio, soggettivo e universale.
La somiglianza tra noi esseri non è riferita alle sole fattezze, ai corrispondenti lineamenti, agli stessi colori della pelle, al sesso sano o distorto che sia, alle abitudini famigliari o di comunità, piccoli o grandi che siano. La somiglianza è intesa come “creature divine” poste in un contesto ben definito, per assurgere al compito supremo: mantenere, in armonia, la casa comune ben ordinata, così come ci è stata offerta in uso gratuito, senza corpo ferire.
Chi ci gira intorno, chi ci gira per “casa” è un membro della famiglia e, come tale, è parte del nucleo, parte di noi stessi. Nel dimenticare o ignorare questo principio sarà come allontanarsi dal punto di partenza, lasciando, inavvertitamente, il fabbisogno, il necessario da portarsi appresso, per il viaggio che ci è dato intraprendere per raggiungere la meta che, inutile ignorarla, sarà comune a tutti.
Con una volontà inadempiente, hai voglia tu attivare i tuoi polmoni per riempire d’aria i palloncini per la festa: faresti meglio ingaggiare un tisico per risolvere il problema, oppure fare a meno dei fronzoli e colorare la festa non accettando ospiti che ti sembrano sgraditi poiché non ne conosci la vera natura? La travolgente corsa a dubbie mete, non fa che alterare, più che mai, la speme. Speme nata per azzardare voli senz’ali e sentirne, ahimè, il triste tonfo, mediante la caduta inattesa? Tale diviene l’essere ostile verso il disabile o, comunque, verso chi non è come noi vogliamo.
“La saggezza è saper stare con la differenza senza voler eliminare la differenza” (Gregory Bateson).