
Una casa senza porte, che accoglie e custodisce come un dono i propri figli, secondo la tradizione africana, quella di Kader in Africa.
Un mare di ricordi: la voglia di studiare; il tempo della scuola, che dura dalle 8 alle 17, con l’intermezzo della pausa per il pranzo a casa, in cui si consolidano i rapporti vitali con la madre, venditrice di stoffe al mercato;
la preghiera, cinque volte al giorno, con la famiglia riunita e lo studio del Corano; la colazione insieme; il rispetto e la venerazione per il nonno sarto, che con la sua saggezza ed equilibrio “ricuciva situazioni”.
E poi il racconto della partenza forzata, dal quale emergono la sofferenza e il trauma del distacco, sperimentato dal giovanissimo protagonista, proprio quando è in atto il processo di costruzione della personalità e si coagula lo sforzo per la conquista di una precisa fisionomia identitaria. Kader parte con indosso alcuni oggetti significativi, appartenenti alla famiglia, che esprimono la ferma volontà di non recidere il cordone ombelicale con i suoi cari: il rosario e un libro del papà, un pezzo di tessuto della mamma.
Tra il momento della partenza e quello dell’arrivo in Italia si colloca la pluralità delle esperienze vissute da ragazzino nella sua Africa: la voglia innata di combattere per la tutela dei diritti umani, che si concretizza in concomitanza con la violenza subita dal suo primo amore, Assetou, promessa sposa ad un altro, il senso di ingiustizia che ne deriva, la partecipazione alle manifestazioni in piazza.
Solidarietà, sincerità, rispetto sono i valori per cui egli decide di impegnarsi e combattere; si aggiungono l’orgoglio per la propria “negritudine” e la fierezza di essere africano.
Tante le belle “stranezze” del popolo ivoriano che si susseguono nella narrazione: accogliere in casa chiunque abbia bisogno, offrendogli il proprio letto e condividendo il cibo, oppure attribuire il nome della persona ospite al primo bimbo che nascerà nella famiglia. Sì, “ospite”, perché nella lingua africana la parola “straniero” non esiste.
Arrivato in Italia nel 2016, Kader si ostina nel continuare a studiare, perché per lui la cultura e la conoscenza sono armi per essere liberi dai condizionamenti, perché l’allargamento e la dilatazione degli orizzonti del sapere implicano l’incontro con l’altro da sé e il superamento dei pregiudizi. Kader studia, dunque, non per acquisire la cittadinanza italiana, ma per tornare, culturalmente più ricco, in Costa d’Avorio e impegnarsi per il rinnovamento del suo Paese. Ad onor del vero, sarebbe auspicabile, secondo la sua opinione, l’impegno per una inversione di tendenza anche in Italia, dove, per esempio, il controllore di un treno pretende l’esibizione del biglietto soltanto da lui, giovane africano, che, per tutta risposta, si dichiara disposto a tirarlo fuori se i passeggeri italiani faranno altrettanto.
I tre perni, intorno ai quali ruotano gli avvenimenti, (fanciullezza e parte dell’adolescenza in Africa, partenza, arrivo e soggiorno in Italia), si rincorrono, intrecciandosi tra di loro e assecondando l’onda dei ricordi e del vissuto di Kader.
La citazione di Caparezza e del suo pezzo “Vengo dalla luna” conferma che le canzoni tirano fuori il background di ciascuno. Il ricordo e la nostalgia del passato riaffiorano in ogni parola: il tempo in cui mamma e papà erano sempre presenti con il loro supporto, anche quando non condividevano le scelte del figlio; la nostalgia delle tradizioni africane, dove i papà devono saper fare le treccine alle figlie, per esaltarne la bellezza e rendere visibile l’orgoglio paterno; il malinconico e struggente pensiero per Assetou, il primo amore.
E, a seguire, la descrizione del viaggio verso l’Italia; la sosta in Libia, la prigionia, le torture, la forza e la determinazione che sembrano vacillare.
E, finalmente, l’arrivo in Calabria, la prima mano tesa che ti aiuta a mettere i piedi sulla terraferma dopo tanto mare, quel mare che ora fa ancora paura a guardarlo e che fa affiorare ricordi spiacevoli per qualunque persona.
Molto delicati, oltre che pieni di amore e rispetto, risultano i confronti con gli atteggiamenti/comportamenti degli Italiani, pugliesi soprattutto, e con i sapori dei frutti della terra.
E, ancora, l’arrivo nella famiglia di Corato, con mamma Daniela, i regali, il primo Natale, la festa di compleanno, il lavoro nei campi, la scuola.
E, infine, il ritorno a casa, breve, giusto il tempo per riassaporare la propria rifinita identità e per accorgersi che la casa senza porte, purtroppo, ora ne ha una.
“La pelle in cui abito” non veicola il desiderio di riscatto; è un fiume di vita vissuta, sia pure ancora ridotta, che rivendica e valorizza le proprie radici agli occhi di chi scopre che i Paesi di provenienza dei nostri “ospiti” sono ricchi di ciò che noi abbiamo purtroppo perso, rendendo tangibile la voglia di tornare da parte di chi è determinato a contribuire al cambiamento del luogo di origine.
Giancarlo Visitilli, su mandato di Giuseppe Laterza che, leggendo un’intervista rilasciata da Kader, intuì la forza dirompente della sua vicenda biografica, ha il merito di aver dato corpo e linfa, nonché veste espressiva e linguistica, all’opera, che verrà presentata nella mattinata del 29 gennaio p.v. agli studenti del C. Troya e nel pomeriggio alla collettività andriese presso il Museo Diocesano S. Riccardo.
Promotore dell’evento è il Centro don Bosco, in partenariato con Il Circolo dei lettori, il Nocciolo e Ret’Attiva.