Un conto è considerare il Covid-19 un ‘nemico invisibile’ contro cui combattere alla cieca  ed un conto è affrontarlo con quello che di esso si conosce con gli strumenti scientifici

Se c’è una cosa che la  situazione che stiamo vivendo, quella determinata dal Covid-19, può offrirci, quasi come effetto non intenzionale delle nostre azioni, per usare una espressione di quel filone di studi in sociologia chiamato individualismo metodologico, è quella che con Primo Levi si può chiamare ‘la miglior merce’, tipica della tradizione ebraica dove la conoscenza  derivata dalla lettura continua dei testi biblici era considerata una risorsa strategica per educare in modo permanente tutta la comunità. I fatti che stanno avvenendo in questi giorni e che ci hanno preso alla sprovvista stanno insegnando a tutti quanti molte cose a partire dalla amara presa di coscienza che, nonostante le molte conoscenze acquisite nel campo bio-medico, esse risultano ancora incomplete e provvisorie;  il Covid-19, come ogni reale che si rispetti ed in questo caso un reale vivente e dotato di caratteristiche uniche, ha una complessità o rugosità tale non facilmente inquadrabile nei parametri cognitivi  esistenti su cui invece si poggiano le scelte politico-sanitarie messe in atto per arginarlo e gli stessi comportamenti individuali e collettivi.

Nello stesso tempo si sta prendendo, sia pure più lentamente, coscienza del forte scarto esistente tra l’enorme produzione di tecnologie provenienti dall’ambito fisico e  da quegli approcci che adottano in genere strategie di ordine più quantitativo o di quello che viene chiamato il paradigma fisicalista da quelle meccaniche a quelle digitali per i loro immediati risvolti di mercato, e il minor sviluppo di tecnologie bio-mediche il cui peso e bisogno non si avvertono nel breve periodo ma a più lungo termine appunto perché esse sono plasmate sui processi del vivente con i loro tempi più lunghi e modalità di emergenza che per definizione sfuggono ad ogni parametro di tipo puramente quantitativo; e poi anche perché non secondariamente siamo tutti immersi nella palude del presente, compresi gli stessi istituti di ricerca insidiati dall’ideologia del produrre su larga scala bio-brevetti uno dopo l’altro pena il loro sostentamento, quando invece la ricerca  e quella biologica in particolar modo ha tempi che non rispondono agli interessi immediati di mercato e che a volte entrano in evidente contrasto con le logiche della tecnocrazia.

Pur indirizzate a permettere e a creare le condizioni per una migliore qualità della vita, le tecnologie bio-mediche scontano da una parte lo storico ritardo della nascita e dello sviluppo, rispetto alla fisica, delle scienze biologiche e dall’altra il fatto che ha dominato e domina in esse, salvo alcune eccezioni, un approccio riduzionista  di impronta fisicalista che ha avuto però il merito, come in diversi campi del pensiero, di fare loro raggiungere determinati e importanti traguardi teorici e sperimentali di cui tutti godiamo; ma lo sviluppo delle conoscenze bio-mediche degli ultimi decenni sta facendo sempre più prendere coscienza della complessità del vivente in ogni suo grado e livello, della inadeguatezza dei diversi modelli messi in campo per la sua comprensione e della necessità di approcci più onnicomprensivi dove ogni risultato conseguito pur importante non è esaustivo e va integrato con altri ottenuti nei vari ambiti del pensiero scientifico per poter approdare ad una conoscenza sempre più appropriata con la consapevolezza che essa sarà sempre parziale. Questa logica del complesso, che la cosiddetta epistemologia della complessità emersa proprio grazie alle scienze della vita  ha da diversi decenni posto al centro dell’attenzione, è quella sottostante anche  ad un virus come il Covid-19 e di altri che sono apparsi e appariranno tra le  innumerevoli pieghe del vivente con tutti i loro drammatici  precipitati umani.

Questa però  è la ‘miglior merce’ o acquisto epistemico con tutto il loro pieno di conoscenze che esse scienze della vita, insieme alla tecnologie bio-mediche in grado di costruire, ci offrono e sta a noi cercare di comprenderne le diverse dinamiche, di metabolizzarle e soprattutto di tradurle in una e vera propria paideia, nel senso greco del termine, per educarci  a tutti i livelli, da quello scientifico alla gestione politica della salute, alla logica del  reale complesso; si deve prendere atto che esso non è unidirezionale come ad esempio il Covid-19, non è lineare, distrugge ogni forma di pensiero e attitudine di natura fondativa e autoreferenziale, non distribuisce certezze o ricette miracolose e quindi ogni tentativo di incapsularlo in determinati schemi fissati a priori fallisce miseramente e, come diceva Simone Weil, prima o poi esso reale complesso e ‘rugoso’ ‘si vendica’ facendoci trovare impreparati e a corto di adeguate munizioni per fronteggiare le sue diverse articolazioni. Però nello stesso tempo esso manifesta il suo volto cosmopolitico o, per usare una espressione di Mauro Ceruti, si presenta come una ‘universale condizione cosmopolitica’ nel senso che implica un coinvolgimento di tutta l’umanità come problema che richiede una collaborazione globale, cioè una sorta di fratellanza dove ognuno si sente fratello dell’altro nell’affrontare e gestire insieme eventi drammatici.

Certamente questa accortezza metodologica e presa di coscienza non bastano per la situazione ormai mondiale in cui ci troviamo immersi, ma un conto è considerare il Covid-19 un ‘nemico invisibile’ contro cui combattere alla cieca non conoscendone il volto ed un conto è affrontarlo con quello che di esso si conosce con tutti gli strumenti scientifici, tecnologici e politici che l’intera umanità è in grado di mettere a disposizione con tutti gli  inevitabili errori che si commettono quando ci si scontra con un reale non ancora domato con le leggi della conoscenza. In questo momento costellato da morti e drammi vari, un primo forte e concreto segnale da registrare  è il passo che si sta facendo in diverse direzioni e cioè quello di potenziare e di indirizzare ancora di più parte della produzione tecnologica verso le biotecnologie sanitarie sia nel pubblico che nel privato, ma questa volta con una maggiore consapevolezza sociale del loro  essere e diventare sempre più un bene comune da gestire con rinnovati strumenti dove gli stessi valori etici di universalità e responsabilità vengono ad avere un ruolo non più marginale; forse questa, oltre al nuovo senso di fratellanza che sta emergendo sia pure a fatica, è anche una delle non minori ‘migliori merci’ che la situazione attuale ci sta offrendo e sta a noi indirizzare, sostenere ed orientare per non rimanerne travolti.

E ancora una volta, un uomo come Primo Levi con tutto il suo portato insieme di conoscenze e di sofferenza ci può essere da guida nel trarre da una situazione oltremodo grave e tragica, come fu la sua, qualche piccola speranza che trova nella conoscenza uno dei tanti strumenti per prepararsi meglio alle sfide che ci attendono.

TRA LA RUGOSITÀ DEL REALE:

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Mario Castellana, già docente di Filosofia della scienza presso l’Università del Salento e di Introduzione generale alla filosofia presso la Facoltà Teologica Pugliese di Bari, è da anni impegnato nel valorizzare la dimensione culturale del pensiero scientifico attraverso l’analisi di alcune figure della filosofia della scienza francese ed italiana del ‘900. Oltre ad essere autore di diverse monografie e di diversi saggi su tali figure, ha allargato i suoi interessi ai rapporti fra scienza e fede, scienza ed etica, scienza e democrazia, al ruolo di alcune figure femminili nel pensiero contemporaneo come Simone Weil e Hélène Metzger. Collaboratore della storica rivista francese "Revue de synthèse", è attualmente direttore scientifico di "Idee", rivista di filosofia e scienze dell’uomo nonché direttore della Collana Internazionale "Pensée des sciences", Pensa Multimedia, Lecce; come nello spirito di "Odysseo" è un umile navigatore nelle acque sempre più insicure della conoscenza.