odysseo.it • La malattia del non-dolore
Che sia del corpo o dell’anima, il dolore accompagna la vita dell’uomo da sempre. Siamo cioè “costretti” a soffrire e del resto la prima cosa che facciamo appena nati – perché è l’unica che sappiamo fare – è piangere.

Che sia del corpo o dell’anima, il dolore accompagna la vita dell’uomo da sempre. Siamo cioè “costretti” a soffrire e del resto la prima cosa che facciamo appena nati – perché è l’unica che sappiamo fare – è piangere.

Ci sono però persone che non soffrono, alla maniera dei supereroi e, a differenza di quello che si potrebbe pensare d’istinto (magari potessi anch’io non provare dolore!) non sono da invidiare. Questo “dono”, infatti, è una malattia. Paradossale, no? La malattia, da sempre sinonimo di sofferenza e passaggio obbligato al dolore, diventa la definizione per l’assenza del dolore. Sembra una specie di indovinello ossimorico, ma si tratta di dato scientificamente riconosciuto: l’Insensibilità congenita al dolore (anche detta CIPA: Congenital Insensitivity to Pain with Anhidrosis) è una patologia molto rara causata da una mutazione genetica che provoca insensibilità tattile e anidrosi (cioè l’assenza di sudorazione) e quindi impossibilità di avvertire il dolore le sensazioni del caldo e del freddo. Il sistema nervoso periferico di questi “supereroi”, per farla breve, parla una lingua tutta sua e non riconosce le stimolazioni, specie quelle nocive.

Uno dei casi più noti è quello di Ashlyn Blocker. Vive in Georgia, inconsapevole dei pericoli che affronta anche nei più semplici atti quotidiani. Per risolvere il problema la famiglia è costretta ad avere mille occhi in più ed educare la piccola, sin dalla prima infanzia, a riconoscere i potenziali rischi, a fornirle cioè un’enciclopedia del dolore, che diventa perciò solo un’informazione impersonale e mai una percezione effettiva.

Ashlyn riesce a sentire un po’ di pressione, caldo e freddo non a temperature estreme, ma non prova dolore. E appena nata non ha pianto, solo un piccolo vagito come a dire “ ci sono”. I suoi compagni di classe rimanevano esterrefatti, credendola un’aliena. E anche il giornalista del New York Times è rimasto di stucco quando, durante un’intervista, la ragazzina (ormai quindicenne) preparando della pasta fa cadere un cucchiaio di metallo nella pentola piena d’acqua bollente e un attimo dopo lo ripesca con la mano, come se niente fosse. Dopo, serafica, dice: “Stavo solo pensando: cosa avrei dovuto fare?”

Dal 1983, quando la CIPA è stata classificata come malattia, sono stati documentati circa 500 casi in tutto il mondo e la maggior parte dei bambini affetti da questo disturbo non vive oltre i 3 anni di età, riuscendo raramente a superare i 25 anni. Causa principale di mortalità è spesso l’incapacità del di sudare e quindi il rischio di ipertermia. Cure, come è facile immaginare, non ce ne sono, quello che i pazienti possono fare è un controllo regolare e serrato dei segni vitali perché diversamente non potrebbero accorgersi di potenziali disfunzioni. Si pensi all’infarto, preceduto dal tipico dolore al braccio e spesso proprio grazie a questo scongiurato… be’ nel loro caso non succederebbe.

A voler essere ironici – o forse dissacranti – gli emo e i romantici dello Sturm und Drang non concepirebbero l’esistenza di queste persone, ma bando alle ciance, la riflessione si fa più acuta.

I filosofi atomisti identificano l’origine del dolore nel tatto, perché “quando si ha un eccessivo calore vitale si determina un aumento della sensibilità tattile che sprigionandosi dalle carni è conglobata nel sangue e poi giunge al cuore”, e ci avevano visto giusto anche alla luce di tutto ciò.

Il punto non è questa citazione da pseudo-eruditi, ma il senso profondo di questa malattia. Un senso che attinge alle speranze ataviche e irraggiungibili della storia dell’uomo e della fantasia che identifica le culture di ogni tempo e latitudine: essere immortali, volare, non sentire dolore, per l’appunto. Tutte cose bandite all’essere umano non per rendergli la vita ingestibile o tortuosa, ma forse per permettergli di goderne appieno.

In definitiva la frase “morire di dolore” è per certi versi inesatta, quindi è bene imparare qualcosa da questa malattia: non avere paura di soffrire perché, estremizzando un po’ il concetto, il dolore ci fa vivere.