La maestra arrivava puntuale tutte le mattine. Occhiali con montatura argentata, capelli ondulati, sempre in ordine, e trapuntati di fili bianchi e grigi. Pelle rugosa su un volto ancora splendido che conservava tracce di un’antica e nobile bellezza. La bellezza tipica degli animi grandi.
“Buongiorno, bambini” – “Buongiorno, signora maestra” – “Vi prego, state comodi, sedetevi pure. Anzi no: prima facciamo la preghiera: una bella Ave Maria. Ricordatevi che voi avete tre mamme: la prima è in cielo, la mamma di Gesù, la seconda vi aspetta a casa, la terza sono io…”.
La maestra sapeva essere una mamma dolce e severa. Era molto orgogliosa dei suoi piccoli alunni. Forse lo era in particolare di Gaetano, ma questo non le impediva di metterlo regolarmente in punizione, data la sua eccessiva vivacità. Pensate che la maestra non poteva mai lasciare la classe neanche per un minuto, sennò Gaetano era capace di montare su una rivolta. Persino quando doveva andare in bagno la maestra era costretta a portarselo con sé e lo lasciava ad aspettare davanti alla toilette delle insegnanti. Se però, in corridoio, incrociava una collega che, incuriosita, le chiedeva come mai si portasse appresso quello scolaro, la maestra Maria rispondeva: “Sai, è un po’ troppo vivace, a casa non gli lasciano spazi, e così a scuola esplode. Però è intelligente, sapessi come è intelligente!”.
A dire il vero, all’inizio, Gaetano non capiva bene cosa significasse la parola “intelligente”. Era ancora troppo piccolo e non possedeva se non i primissimi rudimenti della lingua italiana – a casa, tra l’altro, si parlava solo dialetto. E così, in seconda elementare confondeva ancora i significati di “gentile” e “intelligente”, ma una cosa la capiva, eccome: la maestra stava parlando bene di lui, lo stava difendendo, lo proteggeva col suo affetto.
Per di più, la storia che a casa lo tenevano sempre sotto pressione era vera, mica una scusa inventata lì per lì. “Gaetano, non ti sedere per terra!”, “Gaetano, non ti sporcare!”, “Gaetano, non correre che sudi!”, “Gaetano, non giocare con le pozzanghere”, “Gaetano, non giocare a pallone per strada!” e poi la raccomandazione classica, nota a tutti i bambini del secondo dopoguerra: “Gaetano, mo’ che andiamo a far visita alla zia, non ti azzardare a chiedere qualcosa da mangiare! Vuoi che passiamo per morti di fame? Se però ti offre qualcosa, ringrazia e mangia, anche se non ti piace: sennò poi a casa facciamo i conti!”
Insomma, Gaetano era un bambino un po’ fuori dal comune: normalmente, i suoi amici erano coccolati a casa e vivevano la scuola come un castigo. Per lui era il contrario: la sua casa era la scuola e quando tornava nella sua stanzetta si sentiva decisamente in prigione. E tutto questo per via di un’educazione troppo rigida, quella che gli impartivano i suoi genitori, ma anche per una severità colma d’amore, quella della maestra Maria.
Ricorda Gaetano che una volta si era ribellato a una bacchettata sulla testa – a dire il vero, già in precedenza, la maestra Maria gli aveva rotto più di una bacchetta in testa. Quella volta Gaetano era finito in ginocchio dietro la lavagna, ma quello che più gli faceva male non erano le ginocchia nude sul pavimento duro e freddo, né l’umiliazione che subiva davanti a tutti i compagni di classe. Quello che gli bruciava dentro era il fatto che, accecato dall’ira, aveva provato a colpire la maestra con un pugno. In realtà, le aveva appena sfiorato la mano, ma il gesto era stato quello e la maestra ne era rimasta agghiacciata, il dolore che le si dipingeva sul volto, colpita più dall’intenzione che non dal pugnetto di Gaetano.
Quando le elementari finirono e Gaetano passò in collegio “dove ti insegneranno un po’ di buona creanza”, così gli dissero i suoi genitori, l’affetto e la gratitudine per la maestra Maria non si spensero. Ogni volta che dalla città faceva ritorno nel suo paesello, Gaetano trovava il tempo per passare, un pomeriggio, a far visita alla maestra Maria che ora, con lui, non aveva alcun bisogno di mostrarsi severa e lo riempiva di caramelle e coccole, mentre, ancora più orgogliosa del suo ex allievo, lo interrogava sui suoi crescenti successi scolastici…
Ma arrivò un giorno in cui, all’ennesima visita, nessuno rispose al campanello. Gaetano ne rimase sorpreso. In genere, nel primo pomeriggio la maestra Maria era sempre in casa dove viveva da sola: il marito era morto tanti anni prima e i suoi due figli, Antonio e Lucia, erano ormai grandi e vivevano lontano, uno a Milano, l’altra a Bergamo, medico il primo, insegnante la seconda, proprio come sua madre. Davanti al campanello muto, Gaetano non si arrese: tornò a pigiarlo ancora, il giorno successivo, inutilmente, e l’altro ancora, questa volta con successo. Gli aprì la porta una signora sconosciuta, senonché il suo volto e l’età la rivelavano subito come la sorella della sua amata maestra, tale era la somiglianza: “Cosa desideri, giovanotto?” – “Buona sera, cercavo la maestra Maria. Sono venuto anche ieri e ieri l’altro, ma non ho trovato mai nessuno…” – “Salì su, piccolo caro, vieni un attimo in casa…”.
Fu quella l’ultima volta che Gaetano salì quei gradini e varcò quella soglia. La signora Elisa, così si chiamava, gli rivelò un’amara notizia: sua sorella, la maestra Maria, non c’era più, se l’era portata via, in poco tempo, un cancro devastante, scoperto quando ormai era davvero troppo tardi ed erano già passati tre mesi dacché era morta: “Ora finalmente sarà in pace: in Cielo, avrà riabbracciato il suo grande amore, suo marito Francesco”.
Gaetano si fece di ghiaccio e non proferì parola, se non qualche sillaba di circostanza. Rifiutò gentilmente le caramelle che gli venivano offerte: non erano più le stesse, ora che non gliele offriva la sua maestra. Si congedò in fretta e corse in strada a liberare finalmente il suo dolore e le sue lacrime… Non era neppure riuscita a salutarla. Non era mai riuscito a chiederle scusa per l’intenzione malefica di quel pugno. Non era riuscito a spiegare che la sua reazione era nata dall’intima convinzione che in quell’occasione non era lui il vero responsabile della marachella e che perciò non meritava il castigo. Soprattutto, almeno, non a parole, non era mai riuscito a dirle: “Ti voglio bene, maestra. Grazie per aver sempre creduto in me, a dispetto delle apparenze, contro tutto e tutti. Devo a te quello che sarò domani…”.
“Buongiorno, mi scusi, ma lei è un parente?” Gaetano posa i fiori sulla tomba e si gira di scatto: non conosce la persona che gli ha appena rivolto la parola, ma, esattamente come gli era successo già una volta, i tratti somatici e il calcolo approssimativo dell’età gli vengono incontro, suggerendogli che ha di fronte Lucia.
“No, non sono un parente. Sono solo un ex alunno della maestra Maria. Immagino lei sia la figlia. Felice di conoscerla. Sua madre mi parlava molto di lei e di suo fratello Antonio. Mi chiamo Gaetano. Vivo al Nord e lasciai il paese già da ragazzo, ma le facevo visita ogni volta che tornavo. Continuo a farlo ancora ora: da quarant’anni”.
Grazie per questo racconto professore.
Lèggere ed assaporare i brividi dei ricordi scatenati dal tuo contributo, è emozionante.
È proprio vero: ognuno può riconoscersi in questa storia. Mille Gaetano, mille maestra Maria, e Anna, Concetta, Barbara, Teresa. Una storia per ognuno di noi ed una storia unica per la comunità che ha vissuto i tempi in cui le maestre erano “una delle madri”.
Grazie, Paolo per le tue visioni.