
«C’è chi si fissa a vedere solo il buio. Io preferisco contemplare le stelle. Ciascuno ha il suo modo di guardare la notte»
(Victor-Marie Hugo)
A tutti è capitato di passare da una forte oscurità alla luce del sole e di trovarla accecante tanto da dover chiudere gli occhi o perlomeno schermarli con la mano. D’altro canto, a tutti è capitato di passare da una luce accecante ad un ambiente chiuso e apparentemente senza spiragli: solo che, dopo un po’, a forza di dilatare le pupille, quel luogo non ci è apparso più così cupo e, col tempo, abbiamo incominciato a trovare luce attraverso il buio…
Caro lettore, adorata lettrice,
non trovi anche tu che esperienze simili ci offrano la possibilità di meditare su quanto sperimentiamo, ogni giorno, nella nostra vita? Istintivamente, saremmo tutti portati a rispondere che si veda meglio di giorno che di notte. Eppure, troppa luce rende ciechi e poca luce e un occhio ben aperto sono sufficienti per orientarci.
Non è solo la logica del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, come le parole di Victor Hugo sembrano suggerire. Certo, meglio godersi lo spettacolo delle stelle che fermarsi a calcolare lo spazio dominato dalle tenebre. Ma c’è dell’altro: c’è la consapevolezza che solo guardando il buio fino in fondo si abbia uno sguardo addestrato a scovare la luce.
Caro lettore, adorata lettrice,
ogni volta in cui ti scrivo queste parole ho il timore di apparirti irenico, visionario, come dire: un “ottimista”. A prescindere dalla mia personale repulsione per quest’ultima attribuzione – tanto varrebbe darmi dell’ingenuo o meglio dello stupido –, ti prego di credermi: quando ti scrivo, conto le mie e tue cicatrici, le tue e mie ferite, incluse quelle non ancora rimarginate e che forse mai si rimargineranno.
Nel mio piccolo, sono un guerriero, magari fossi irenico! Amo le visioni, non le illusioni. Colgo il positivo, ma non mi nascondo il negativo. E non mi sento uno stupido, anche se so di peccare di ingenuità, almeno ogni tanto. Pensi che queste definizioni possano in parte riguardare anche te? Ne sarei felice: Nelson Mandela, che tutti citano e non tutti seguono, ribadiva che un vincitore è un sognatore che non si è mai arreso.
Perché, vedi, non intendo parlarti di una pace a poco prezzo. Ti parlo di compassione. Di equanimità. Di gioia. La compassione comporta gioia e sofferenza. L’equanimità è di chi tutto ha attraversato o è disposto ad attraversare e ad accogliere. La gioia non è superficiale euforia: è amore per un mondo che gronda lacrime e sangue, eppur vive, come un miracolo.
Amore, gioia, compassione, equanimità: il monaco vietnamita Thich Nhat Hanh, nel suo Insegnamenti sull’amore, li presenta come i Brahmavihara, ovvero i quattro elementi “incommensurabili”, vera porta della felicità per chi li pratica.
Ma non è necessario professarsi buddhisti per cogliere la bellezza di tali parole… Roberto Benigni, nei panni del maestro Raffaele Attilio De Giovanni, ne La tigre e la neve, insegna ai suoi alunni: «Per trasmettere la felicità bisogna essere felici e per trasmettere il dolore bisogna essere felici».
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Notte: la strada buia trafitta dai fari su un valico d’altura. Mia moglie e i bambini nell’auto, null’altro; siamo soli e un brivido ci corre addosso come l’ombra di antichi briganti…Mi fermo, spengo tutto: niente motore, niente luci! <> le indovino su una faccia incredula. D’un tratto quel buio, denso come un fumo che t’attanaglia e che fa morire, s’apre su un bosco di giganti e, man mano che gli occhi prendono confidenza, milioni di lucciole su di loro ci fanno restare attoniti, sbigottiti da tanta bellezza. E il tempo si ferma in un grande spazio d’amore: cosa avremmo visto se non mi fossi fermato, se non avessi avuto l’avventura di spegnere “tutto” e di accettare quel buio, di andargli incontro? Solo due fari e una strada grigia…
Grazie, Gabriele, hai reso alla perfezione quel che ho provato ad esprimere!