A proposito de “Il fu Mattia Pascal”

Non sta proprio nella prerogativa pirandelliana quella di farsi “aggiustare” una parte del corpo per sembrare, agli occhi degli altri, più presentabile, magari a discapito di più importanti qualità delle quali il referente stesso ignora poiché crede di non possedere.

La filosofica visione di Pirandello tralascia gli spazi vuoti di simili fatue ambizioni per sfociare in un ambito dove, sorprendentemente, abbondano valori atti a mantenere alta la fede delle proprie constatazioni in una luminescenza oggettiva delle cose che le circonda e dalle quali egli attinge l’argomento per intessere la propria riflessione, la ricerca del vero appagabile, illusorio: mai assoluto poiché inesistente.

Pirandello, di “Lanterninosofia”, parla per bocca di Paleari all’uomo che, non solo ha perso la propria identità (Mattia Pascal), ma che ha pure scoperto le mancanze etiche, avendo egli spento il suo lumicino del raziocinio proprio quando stava per immettersi in un labirinto di densa caligine.

La paura di non farcela a superare l’intoppo è data dal fatto che l’ostacolo stesso è costellato d’asperità, messe lì apposta dal caso, ma la difficoltà nell’allungo, della non riuscita, è data dal timore di non farcela piuttosto che dalla possibilità, che la prova gli darebbe, se solo non la minasse di pessimismo, di tentennamenti.

Il buio immaginario che Paleari intende e che cerca di spiegare al povero Meis è frutto di una percezione soggettiva, poiché non tutti riescono a mantenere acceso il lumino per illuminarsi coscientemente. Non a caso Pirandello ha messo in condizioni il soggetto del suo romanzo in una temporanea condizione di cecità, solo per farne oggetto di discussione filosofica: il buio è rischiarato dalla memoria e dai ricordi che questa esprime e che ha in seno.

L’uomo possiede delle capacità intellettive che lo differenziano dagli altri esseri e dal mondo inanimato. Egli possiede il lume adatto per rischiararsi le notti e mantenere vivi i ricordi, anche se questi possono essere oggetto di sofferenza, di tristezza a causa della loro natura, delle verità che esse evidenziano poiché, tra tutti i vangeli, l’unica verità genuina, vera, sentita è quella della sofferenza umana.

Solo dalle nostre visioni, attraverso le situazioni sfaccettate della vita, si rifrangono le diverse tonalità, sfumature cromatiche, attraverso le quali si legge il nostro romanzo.

Questo lo poniamo così, in essere alla visione e attraverso altri “colorati”, sfaccettati vetrini, alla mera attenzione dei nostri simili poiché la stima che nutriamo per noi stessi non ci soddisfa: occorre quella degli altri per farci sentire più vivi … oppure più spenti?

Nella camera oscura è l’attimo di luce (il lumino), quello che determina l’immagine messa a fuoco: basta l’attimo appunto, oltre a quello vi è l’abbaglio, che potrebbe determinare l’immagine mal riuscita, distorta in parallasse e del giusto, miglior “focale” che il pensiero vorrebbe esprimere.


FonteFoto di Vladimir Fedotov su Unsplash
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Salvatore Memeo è nato a San Ferdinando di Puglia nel 1938. Si è diplomato in ragioneria, ma non ha mai praticato la professione. Ha scritto articoli di attualità su diversi giornali, sia in Italia che in Germania. Come poeta ha scritto e pubblicato tre libri con Levante Editori: La Bolgia, Il vento e la spiga, L’epilogo. A due mani, con un sacerdote di Bisceglie, don Francesco Dell’Orco, ha scritto due volumi: 366 Giorni con il Venerabile don Pasquale Uva (ed. Rotas) e Per conoscere Gesù e crescere nel discepolato (ed. La Nuova Mezzina). Su questi due ultimi libri ha curato solo la parte della poesia. Come scrittore ha pronto per la stampa diversi scritti tra i quali, due libri di novelle: Con gli occhi del senno e Non sperando il meglio… È stato Chef e Ristoratore in diversi Stati europei. Attualmente è in pensione e vive a San Ferdinando di Puglia.