“Dai, andiamo! Ti offro un Caffè Borghetti!”
“No, non posso”.
Che stupida, mi ero dimenticata che è musulmano. Anzi, eravamo pure in pieno Ramadan.
“Scusami, Ahmed, mi sono dimenticata che non puoi bere.”
“No, non ti preoccupare, non è per quello. È che quando sono arrivato qui, la sera era così triste e mi faceva così freddo che ho iniziato a bere, tantissimo, per sentire meno freddo… o almeno per dimenticarmelo. Ma una sera vedevo tutto nero, non riuscivo più a capire quale fosse la porta di casa, tutto si muoveva troppo e ho dovuto chiamare un’amica per aiutarmi ad entrare in casa mia. Mi sono sentito così stupido che ho deciso che non mi sarei mai più ubriacato”.
Ahmed non è mai triste, mi racconta questa storia come se fosse un divertente episodio accaduto ad un amico.
“Ma tu non hai paura?” mi chiede Ahmed mentre alcune amiche mi salutano.
“Di cosa?”
“Che la gente ti veda con un nero”.
A me sembrava una cosa così naturale parlare con lui, perché siamo diventati amici, che non ci avevo nemmeno pensato che per lui, forse, non era così naturale. Io vivo nella Capitale, ho conosciuto gente da tutto il mondo e il colore della pelle è sempre stato un sottofondo. Ma Andria è Andria e appena guardo aldilà della spalla di Ahmed, mi accorgo di quanta gente passi e guardi una bianca e un nero che chiacchierano senza essere loschi. “Che strano modo di spacciare!” sembra pensare quel ragazzo con l’orecchino di diamante.
Una volta Ahmed mi ha raccontato che ha visto un bianco nel suo villaggio ed è corso come un disperato, piangendo, tra le braccia della mamma, convinto di aver visto un diavolo. Pensare a questa storia mi fa sorridere, nel vedere con quanto timore si guarda intorno.
Eppure non dovrebbe avere quel senso di inferiorità negli occhi. Ahmed è un professore, nel suo Paese è laureato in Matematica, conosce nove lingue ed è il mio insegnante energico e pignolo di arabo.
“Traduci quello che stai facendo”
“Ana…mmm, ‘tagliare’ non me lo ricordo, hhodra”
“Qatta! Si dice Qatta! Scrivitelo sul quaderno e se sbagli ti faccio tagliare le cipolle!” mi minaccia scherzosamente. Rilegge quello che ho scritto e sbuffa: “Scrivi come una pedata di zanzara”. Ma è grazie a lui che so quello che so. Anzi, mi ha portata a fare lezione fuori dalle aule a cui sono abituata e mi ha insegnato una lingua intessuta di una cultura che non avrei nemmeno percepito, china sui libri di grammatica. E poi, muovendosi inconsapevolmente nella sua quotidianità, mi ha mostrato quell’enorme Mar Mediterraneo che passa tra una legge e la realtà. Una mattina mi ha chiesto di accompagnarlo in banca per firmare l’assicurazione della macchina che è finalmente riuscito a comprare, che adora al punto da chiamarla “la mia limousine”.
L’impiegato di banca è il tipico prototipo di yuppie anni ’80: capelli lunghi, gel, camicia bianca sbottonata al punto giusto. Ci spiega il contratto, o meglio, lo spiega a me. Che non ci capisco niente di classi, di fasce e di passaggi di proprietà. Ogni volta che mi fa una domanda, io guardo Ahmed. L’impiegato la ripete ad un volume di voce più alta, come se Ahmed fosse sordo, utilizzando tutti i verbi all’infinito. Come se, per farci capire che è uno stronzo, avesse bisogno di semplificarci il messaggio, per chiarirlo.
Ahmed non se la prende. Me lo dice in continuazione: “Un nero non vale niente”. E io mi arrabbio ogni volta, ma non ho argomenti per dimostrargli che non è vero, perché ogni volta lui aggiunge: “Altrimenti perché faccio questa vita?”.
Da un po’ di tempo a questa parte mi dice che vorrebbe tornarsene a casa sua. Mi dice che non riesce a capire per quale motivo Allah l’ha mandato in una città del genere, a stare peggio di come stava prima, ogni giorno a contatto con chi sta ancora peggio di lui. “E quando non capisci più la tua missione, che senso ha la vita?”
Lui, orgoglioso professore, per la prima volta si lascia sfuggire una lacrima triste.
Vuole tornare a casa, ma la burocrazia italiana lo terrorizza: permessi, tempistiche, bolli e se poi cambia idea? Aspettare altri quattro anni per avere un permesso di soggiorno, tirato dall’amministratore di turno come se fosse una concessione divina, ma che gli impedisce la mobilità sul territorio italiano?
In una lacrima, sola, la gravità tira giù tutti i sogni di un uomo, partito per stare bene, finito a disperarsi al posto mio. “Ora che ha nevicato qui, ho incontrato persone con le ciabatte e i piedi spaccati. E chi sono io per avere delle scarpe? Allora ho preso i miei soldi e li ho dati a chi me li chiede. Solo che l’assicurazione della macchina costa tanto…e ho chiesto a mio padre di mandarmi dei soldi. E invece dovevo essere io a mandarli a lui.” Non è giusto, dice, che non si possa parlare al telefono con la propria mamma dopo che hai attraversato il deserto. Allora quest’estate faceva i turni per chi gli chiedeva di usare il proprio cellulare per chiamare la mamma, per quell’amico che era arrivato prima e dirgli di essere sano e salvo, per chiamare la fidanzata…
In una sola lacrima, Ahmed ha segnato il confine enorme che c’è tra me e lui: non una differenza di pelle, di soldi, di cultura, di religione, ma il valico che c’è tra chi si può permettere di sognare e chi no.
E allora adesso sono io a chiedermi: chi sono io per permettermi di avere delle scarpe?
Quando lo chiamo “ustasz”, che in arabo vuol dire “professore”, Ahmed pensa che lo prenda in giro. Ha ragione, dovrei chiamarlo molto semplicemente Said, che in quella lingua immensa e carica di sfumature che è l’arabo vuol dire “maestro”, ma vuol dire anche “felice”.
Said, io ho ancora troppe cose da imparare.
Verificare che esistono persone come te e Ahmed mi conforta in modo indescrivibile. Grazie Maria Chiara