60mm Mortar Section, Weapons Platoon, Bravo Co, 1st Battalion, 3d Marines on the move in a truck during the Ground War of Operation Desert Storm. Photograph taken in February 1991 somewhere near the 2d minefield belt in the Burgan Oil Field, Kuwait.

La conquista di Bagdad, il 9 aprile 2003, segnò il punto d’arrivo di un conflitto che ebbe come casus belli la distruzione di armi chimiche mai trovate e il completamento della Prima Guerra del Golfo. Anche la musica ha fatto richiamo a questa guerra.

Molti della mia generazione non sapevano cosa significasse il termine “guerra”, non avevamo mai vissuto l’esperienza che i nostri nonni avevano provato una quarantina e passa di anni addietro. Eppure, quella Prima Guerra del Golfo ha lasciato in me un particolare ricordo, forse ampliato dal clamore mediatico che ebbe, dalle edizioni straordinarie e dalla cattura dei nostri soldati Maurizio Cocciolone e Gianmarco Bellini, liberati nel marzo 1991.  Era un mondo che cambiava quello del 1991, orfano dei due blocchi contrapposti della Guerra Fredda che aveva contrassegnato il periodo successivo al secondo conflitto mondiale e in cerca di un nuovo equilibrio che avrebbe visto l’egemonia degli Stati Uniti per gran parte dell’ ultimo ventennio, a cavallo tra i due secoli. Quella imprevedibile psicosi, che nella musica si manifestò con un album che è divenuto una pietra miliare, Blue Lines dei Massive Attack, era il frutto di una guerra contro il tiranno, Saddam Hussein, che aveva invaso il Kuwait, violandone la sovranità e che dall’Iraq esigeva importanti crediti. Lo scenario classico dei buoni e dei cattivi, di una coalizione internazionale guidata dagli USA – e da chi se no – e l’esercito iracheno, lasciato solo dal mondo arabo. L’esito, prevedibile e scontato, della liberazione del Kuwait, vide tuttavia la coriacea resistenza irachena. Possibile in quel contesto parlare di una guerra giusta, di un conflitto resosi indispensabile per soccorrere la parte aggredita. «Una guerra di aggressione è intrinsecamente immorale. Nel tragico caso in cui essa si scateni, i responsabili di uno Stato aggredito hanno il dovere di organizzare la difesa anche usando la forza delle armi» questo recita il Catechismo della Chiesa Cattolica in merito alla inevitabilità di un conflitto che induca ad una “guerra giuusta” e che è sottointeso nella stessa Costituzione italiana all’articolo 11. Teniamo ben a mente questo concetto di “guerra giusta”, se mai possa definirsi un conflitto una risoluzione indispensabile delle controversie, e facciamo memoria di un evento del quale lo scorso 9 aprile abbiamo ricordato il ventesimo anniversario: la presa di

Bagdad.

Dodici anni dopo la Prima Guerra del Golfo, gli Stati Uniti decisero di intraprendere una nuova campagna militare contro l’Iraq e il loro nemico giurato Saddam Hussein. L’America aveva subito gli attentati dell’11 settembre e Saddam Hussein, che per un periodo era stato messo da parte dagli interessi di Washington, si ritrovò ad essere un public enemy da togliere dallo scacchiere internazionale. Colpire gli stati canaglia e i terroristi divenne l’imperativo delle azioni preventive che G.W. Bush perseguì, in nome della sicurezza globale e, forse, della conferma di principale e unilaterale potenza mondiale dell’America. La  presenza di armi di distruzione di massa fornì il casus belli per la nuova Operation Iraq Freedom, resesa necessaria perchè, come dice Andrea Frediani in un suo libro, “solo perseguendo scelte unilaterali, infatti, gli statunitensi si sentono in grado di conseguire gli obiettivi che si sono posti nella guerra che intendono portare al terrorismo”. Le manovre militari, iniziate il 20 marzo e terminate il 1 maggio 2003, durante le quali nella prima parte furono volte alla distruzione di munizioni, ponti, caserme e bunker e che nella seconda invece seguirono il motto del “colpisci e terrorizza”, videro il loro punto apicale nella conquista di Bagdad, che il 9 aprile 2003 era nelle mani degli americani, una caduta più che simbolica, che in un certo senso segnò la fine del regime dello stesso Saddam,  catturato il 13 dicembre dello stesso anno.

Mai sono state trovate le armi di distruzione di massa, il motivo ufficiale con il quale Bush mosse guerra a Saddam, ma forse furono ragioni più sentimentali e, per così dire di pancia, a rendere necessaria una guerra che non può definirsi giusta. E’ vero, Saddam è stato tra i dittatori più violenti del secolo scorso, e i fautori dell’interventismo americano si consolano con il fatto che almeno sia stato eliminato, per certo l’azione americana in Iraq ha provocato un’ulteriore destabilizzazione nella regione che la transizione alla democrazia non ha saputo prevenire. Si parlava di azione preventiva e di guerra al terrorismo. Singolare che all’indomani del conflitto sia sorto proprio in Iraq uno dei gruppi terroristici più sanguinari e violenti degli ultimi decenni, l’Isis, nato proprio per combattere gli Stati Uniti e il governo sciita. Se Bush è riuscito in un’impresa, quella è stata di portare a termine l’opera del padre, Bush senior, e di far fuori una volta per tutte Saddam Hussein, giustiziato alla fine del 2006. Nessuna guerra è giusta, se questa porta ancora sangue, morte e terrore e se destabilizza una regione, divenendo una mina vagante e imprevedibile. A cantare l’inutilità dell’operazione ci pensarono i Radiohead che dedicarono, non certo benevolmente, il loro album Hail To Thief a G.W. Bush. Purtroppo sbagliare umano, perseverare diabolico e gli stessi errori commessi in Iraq sono stati rifatti in Libia, con l’eliminazione di Gheddafi. Ancor più tragica la sorte capitata all’Afghanistan, che per un ventennio ha respirato l’ebbrezza di una democrazia debole e instabile, su cui si è abbattuta il ritorno dei talebani, segnando ancora di più una politica americana preventiva poco lungimirante.