«Ho una fiducia così grande: non nel senso che tutto andrà sempre bene nella mia vita esteriore, ma nel senso che anche quando le cose mi andranno male, io continuerò ad accettare questa vita come una cosa buona»
(Etty Hillesum)
Caro lettore, adorata lettrice,
sto invecchiando. È un dato biologico prima che altro. Un dato di fatto. Il corpo, grazie a Dio, ancora regge discretamente bene e, salvo un po’ di stress in eccesso, anche la testa funziona così e così. Quanto al cuore, beh, si sa, quello è sempre un “caso strano”, difficile da inquadrare. Smile.
Ma sto invecchiando. È un dato di fatto.
E sai da cosa me ne accorgo?
Dal fatto che sto via via sperimentando la dolcezza di far pace con se stessi e con il mondo. Anche con Dio, per quanto e come riesca a concepirlo.
Di me stesso sto imparando, un po’ alla volta, molto lentamente, ad accettare limiti e difetti, mancanze ed errori. Persino gravi. Non hai idea di quanto mi costi! O forse sì…
Dagli altri sto imparando, anche qui: con estrema lentezza, a non lasciarmi ferire, specie se sono loro affezionato. Perché è la cosa più consueta che ti feriscano proprio le persone che ami e che ti amano: ma è proprio perché li ami che non devi permettere che i loro strali e le loro disattenzioni ti raggiungano. Perché, se ti lasci ferire, questo ti incattivisce, genera rancore e spirito di rivalsa: e l’amore prima ne soffre, poi rischia di morire. Per cui, se ti amo, non ti permetto di farmi del male, paro e schivo le tue frecciate, dico: non è a me che le ha indirizzate, rinsavirà, ritornerà in sé, devo saper attendere il suo ritorno. Un atteggiamento che svuota il risentimento, lenisce le ferite e ridona libertà. L’ho sperimentato. Mi ha fatto bene. Credo abbia fatto bene anche al mio prossimo.
Quanto a Dio: beh, più vado avanti, più accetto di disimparare tutto quello che pensavo di aver imparato. Oggi lo so che Dio non lo si può con-prendere a forza di titoli ed esami di teologia; oggi sono convinto che ciò che accomuna tradizioni e religioni è molto più di ciò che divide e distingue; oggi accolgo la possibilità di lasciarmi stupire dal Tutto o dal Nulla nell’attimo finito-infinito della mia morte. E nondimeno: oggi avverto sempre più una Presenza che è, innanzitutto, amore e misericordia. E, confesso, m’è dolce naufragar in questo mare.
Così, se sto invecchiando, devo dire che, almeno finora, il processo sta avvenendo in un modo del tutto inatteso.
Ho sempre pensato con terrore alla mia vecchiaia più che alla stessa morte.
Ora, forse perché non sono ancora del tutto decrepito, sto scoprendo la bellezza di vivere il tempo, proprio questo tempo, in gratitudine.
Ecco, sì: la gratitudine è il sentimento che prevale.
Gratitudine per ciò che è stato, è e sarà.
Gratitudine per la vita, gli incontri, gli abbracci, le relazioni.
Gratitudine per le ferite e le cicatrici. Per le deviazioni e per i ritorni. Per le attese e per i vuoti.
Gratitudine perché è davvero meraviglia vivere.
E il contrario non era affatto improbabile.
Etty Hillesum, a profusione, tra il 1941 e il 1943, prima di passare per il camino ad Auschwitz:
«Trovo bella la vita, e mi sento libera. I cieli si stendono dentro di me come sopra di me. Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore. La vita è difficile, ma non è grave»;
«Ho il dovere di vivere nel modo migliore e con la massima convinzione, sino all’ultimo respiro: allora il mio successore non dovrà più ricominciare tutto da capo, e con tanta fatica. Non è anche questa un’azione per i posteri?»;
«…ho saputo all’istante che stasera avrei dovuto pregare anche per quel soldato tedesco. Una delle tante uniformi ha ora un volto. Ci saranno ancora altri volti su cui potremo leggere e capire qualcosa. E questo soldato soffre anche lui. Non ci sono confini tra gli uomini sofferenti, si patisce sempre da una parte e dall’altra e si deve pregare per tutti»;
«Ti prometto una cosa, Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini».
Bellissimo grazie perché so che non sono solo ad essere amato/attraversato da questo sentire/sentimento.
Grazie a te, Nicola.