Gherardo Colombo, una vita spesa per la giustizia, una giustizia che lui definisce “assolutamente relativa”. Pubblico Ministero a Milano, dal 1989 al 2005, quindi giudice di Cassazione fino al 2007. Chi non lo ricorda per inchieste come quelle sulla Loggia P2, sul delitto Ambrosoli, sui cosiddetti fondi neri IRI, sui processi IMI-SIR, sul Lodo Mondadori e SME? Tuttavia, se c’è un’inchiesta a cui è legato a doppio filo il suo nome, è quella che ha spaccato la storia d’Italia in “prima” e “seconda” Repubblica: Mani Pulite.

Oggi, Gherardo Colombo porta avanti un intenso impegno, in giro per le scuole italiane, per il progetto Sulle regole, dal nome dell’Associazione che lui stesso ha contribuito a fondare.

Basterebbe questo stringato curriculum vitae per avere un’idea del calibro dell’uomo che, gentile e assolutamente disponibile, si offre al microfono di Odysseo, come alle domande dei ragazzi che lo ascoltano. Nessuna prosopopea, nessun’aria di grandeur. Una persona schietta e semplice che, mentre scolpisce parole che ti scavano dentro e che da dentro leggono la nostra realtà, ti fissa negli occhi in libertà: la libertà di chi ama rispettare ed essere rispettato.

Dott. Colombo, leggendo il suo libro, Il perdono responsabile, si intuisce subito che non si tratta di un perdono da intendere in senso cristiano…

In effetti, uso il termine in senso laico. Io credo che ci siano comunque dei punti di contatto con il senso religioso, però è un qualcosa di diverso. Il perdono, è importante ricordarlo, non vuol dire dimenticanza, amnesia. Vuol dire avere ben presente che cosa è successo e che quel che è successo è male. Tuttavia è importante saper distinguere la persona nella sua integrità, nella sua completezza, dall’episodio, in modo che si possa continuare a considerare quella persona che ha sbagliato come appartenente al genere umano.

Lei pensa che si debba perdonare anche chi si rende colpevole dei crimini più gravi?

Diciamo subito una cosa: perdono non vuol dire permetter a chi ci vuol far del male che continui a farci del male. Chi ci vuol far del male deve stare da un’altra parte. Ma questo non significa che la società possa fare il male che essa stessa condanna. Non si può, ad esempio, comminare la pena di morte per insegnare che non si deve uccidere. È come se un docente desse due sberle ad un ragazzo per fargli capire che non si danno le sberle. Quando una società si comporta così, continua a insegnare che il mancato rispetto della dignità dell’altro è una cosa positiva. E allora tutti lì a non rispettare l’altro, a non rispettare la vita altrui.

Il perdono “conviene” alla società?

Conviene in primo luogo a chi perdona, perché chi perdona sta meglio, non si porta dietro il rancore. In modo molto pertinente è stata raffigurata la persona che prova rancore come colei che, per far morire qualcun altro, assume ogni giorno una dose di veleno. Il rancore fa male a chi lo prova, non fa male al destinatario. E poi, attraverso la disponibilità a riallacciare le relazioni che si erano infrante, si ricostruisce la Comunità e quindi alla fine il perdono fa bene anche alla società.

Scusi, ma lei non crede che la giustizia sia un valore assoluto?

Io credo proprio che la giustizia non sia un valore assoluto. Trecento anni fa, era giusto che i maschi fossero a un certo livello e le femmine a un livello inferiore. Potremmo andare indietro nella storia: le donne non potevano mai scegliere perché erano sempre sotto tutela. Nascevano sotto la tutela del padre, si sposavano e passavano sotto la tutela del marito, se restavano vedove, passavano sotto la tutela del fratello, del cugino e così via. È durata per millenni e lo ritenevano giusto anche le donne, salvo qualche mente “sovversiva”. Allora era “giusto” così. Oggi, almeno a parole, tutti crediamo al valore della non discriminazione di genere, al valore delle pari opportunità. Prima era il contrario. Ed è lo stesso per chissà quante altre cose. Un altro esempio. Quest’anno sono 250 anni da che Cesare Beccaria pubblicò Dei delitti e delle pene. Un libro che ebbe subito un enorme successo, tanto che dopo due decenni furono aboliti i supplizi: la pena, prima, era la tortura. Proviamo a immaginare: se Beccaria avesse scritto il suo libro nel 1600, invece che nel 1764, come sarebbe andata? Sarebbero stati aboliti i supplizi o sarebbe stato abolito Beccaria? Beccaria! Perché nel ‘600 era considerato giusto che una persona che aveva commesso un crimine fosse torturato. Il pensiero delle persone, nel giro di pochi decenni, ha trasformato il giusto nell’ingiusto e l’ingiusto nel giusto. Dunque la giustizia è un concetto necessariamente relativo. Anzi, se ci pensa, nel corso della storia, il contenuto del termine giustizia era esattamente il contrario di quel che generalmente riteniamo giusto. Oggi è giusto che la legge è uguale per tutti. Bene: è sempre stato giusto che la legge fosse disuguale. La schiavitù è stata abolita negli Stati Uniti d’America solo nel 1865, come dire: sul piano della storia, l’altro ieri! Addirittura per superare importanti discriminazioni di genere, in Italia, si è arrivati al 1975. Gli articoli del Codice Civile che dicevano che il marito è il “capo della famiglia”, e al capo si obbedisce, moglie compresa, sono stati aboliti solo nel 1975. Fino a 50 prima, era ritenuto assolutamente giusto che il marito decidesse e la moglie obbedisse. Poi è diventato ingiusto. Allora com’è che facciamo ad orientarci? Io credo che valga moltissimo l’esperienza. È l’esperienza delle persone singole e dell’umanità nel suo complesso che, progressivamente, contribuisce a far modificare il senso di giustizia. Nonostante derive pazzesche come quelle del nazismo, io credo che si vada, nel complesso, verso un sempre maggior riconoscimento reciproco. Quanto più ci si riconosce, quanto più io vedo in lei un essere tal qual sono io, un essere umano come me, tanto più quello che non vorrei subire io non lo faccio subire a lei. Ed è esattamente questo che serve per superare le discriminazioni. Giustizia oggi vuol dire opportunità pari perché per via delle esperienze che progressivamente si sono compiute siamo arrivati a pensare, almeno formalmente, perché poi sostanzialmente il discorso è un pochino diverso, che vada bene stare insieme in questo modo e non in un modo diverso.

Allora sono maturi i tempi per passare da un modello di giustizia retributiva ad una giustizia che contempli l’idea del perdono responsabile?

Io credo che siamo ancora un filino indietro. Secondo me, siamo più vicini al ‘600 che non ai tempi del Beccaria. Ma attenzione: la nostra funzione, quella che noi svolgiamo oggi, è di arrivare al 1764 e poi all’abolizione della tortura. Intendo: come succede che arrivi un cambiamento? Perché Beccaria è stato condiviso? Perché, nel frattempo, le teste del persone hanno fatte un percorso. Hanno cambiato idea. E come si fa a cambiare idea? Si approfondisce. Si discute. Ci si accorge dei problemi. Si fa esperienza di qualcosa di nuovo. Ora, a mio avviso, il trattamento da riservare a chi ha sbagliato è una cartina di tornasole. Fa vedere da che parte si sta: se si vuole una società verticale o una società orizzontale, una società delle opportunità pari o una società della discriminazione, una società del riconoscimento della dignità oppure il suo contrario. E allora, anche quando si parla d’altro, di regole ecc., molto spesso si va a finire là. Io noto l’esistenza di un certo percorso, soprattutto tra i ragazzi, mentre gli adulti son più duri. Ragion per cui i ragazzi, come sempre, hanno molto da insegnare agli adulti, perché sono più liberi. Gli adulti hanno un percorso dietro le spalle e hanno una necessità effettiva di ritenersi coerenti e per questa ragione, se hanno fatto delle sciocchezze, tendono a giustificarle. Più si è vecchi, più si hanno cose da giustificare, sennò ci si sente deprezzati. I giovani questo problema non ce l’hanno, perché il loro percorso è appena iniziato, e per questo sono più disponibili al cambiamento. Perché si va avanti? Si va avanti perché le persone muoiono. Fossero sempre le stesse, saremmo all’età della pietra. Invece, lo dico per me, noi moriamo, io morirò. La cosa può seccare. Devo dire che mi dispiace, mi dà un certo qual fastidio, ma è ciò che permette di progredire verso una società più evoluta di quello che abbiamo oggi.

Ritiene che la mediazione penale, che in altri Paesi è già una realtà, prima o poi arriverà anche in Italia? Andremo oltre quelle che lei definisce come imprese “quasi artigianali”, per quanto lodevoli?

Io credo di sì. Bisogna parlarne. Bisogna rifletterci e comunicare: sapere perlomeno che la mediazione penale esiste. Sapere cos’è e sapere quali siano i risultati che porta. E quindi io sono fiducioso. Peraltro, a coloro che dicono che bisogna chiudere in carcere chi ha sbagliato e buttar via la chiave, bisognerebbe consigliare di visitarlo, il carcere, almeno una volta nella vita. Può darsi che scoprirebbero una realtà per loro istruttiva e… disumana. Provate a stare rinchiusi 22 ore al giorno, in otto persone, in dodici metri quadri, compreso il lavandino e il bagno turco. E pensate di vivere anni e anni così, senza intimità, avendo solo 6 ore al mese per vedere i vostri cari. Provate a immaginare che i vostri diritti umani siano stati cancellati. Proviamo a pensare che la nostra dignità sia stata cancellata. E chiediamoci se noi per primi, in simili condizioni, saremmo aiutati a capire che abbiamo sbagliato e che è giusto che ci riconciliamo con la società.