Le parole di Wojtyla e di Gibran sul tempo dell’uomo
In ogni fine d’anno le persone, come padri o madri, come lavoratori o cercatori di orizzonti lavorativi, come single movidari o come innamorati della solitudine, oppure nei panni di tutti questi “ruoli” riuniti ad un tempo, in un solo spazio corporale nonché spirituale, rintracciano le coordinate con cui hanno vissuto l’anno che sta morendo. I cittadini guardano alla cosa pubblica nelle sue pecche e nelle sue evoluzioni, più o meno favorevoli per se stessi e per i più. Le speranze si condensano sulla opaca realtà che si scorge appena, oltre gli sguardi sul nuovo inizio di una conta annuale scandita dai mesi, e dalle settimane, e dai giorni.
A fine anno ci accingiamo a considerare o riconsiderare i grandi del passato, anche recente, per capire come i grandi dell’oggi stanno affrontando il percorso evolutivo del divenire fragile dei tempi. E si sa che riflettere eccessivamente può portare all’inerzia sociale, ma non riflettere affatto porta all’irrefrenabile immobilismo involutivo delle coscienze, su più piani.
Nella tenerezza del riconoscersi fragili seppur protagonisti di fronte al mistero del tempo, nonché impotentemente immersi nella sua inesorabile scorrevolezza, riprendiamo le parole scolpite come segni vivi di chi non è più tra i vivi, fisicamente.
A fine di questo anno toccato dal Covid-19 e dai tanti inceppamenti dei motori morali e materiali della vita, uniti al coraggio catto-alternativo del pontefice Francesco, è giusto riprendere tra le dita anche altre sfumature esperienziali di coraggio, come quelle di Giovanni Paolo II. In una raccolta di meditazioni sparse di Karol Wojtyla, meditazioni comunicate pubblicamente a tutti ma anche intimamente a chi gli era intorno, ritroviamo una rubrica intitolata ”Fine dell’anno”. La raccolta si intitola “Parole sull’uomo. Riflessioni su fede, pace, libertà”, con la prefazione di Vittorio Messori. Si tratta di una raccolta antologica curata da Angelo Montonati che ha lavorato nella comunicazione a livello internazionale, seguendo ed anzi inseguendo Papa Giovanni Paolo II in vari viaggi.
A proposito delle riflessioni di Wojtyla sulla fine dell’anno, nell’antologia di raccolta è scritto che “Il messaggio del Natale getta luce sul fatto temporale, ma anche profondamente esistenziale, che è la fine dell’anno. La prima riflessione suscitata dal passaggio da un anno all’altro è quella dello scorrere inesorabile del tempo: i giorni spingono i giorni, le settimane si susseguono a ritmo inarrestabile, un mese subentra quasi impercettibilmente all’altro, e ci ritroviamo in mano un nuovo calendario”.
Di fronte a questa oggettiva ripresa di coscienza sul tempo, a fine d’ogni anno, l’umanità si stringe attorno a se stessa, chi con uno sguardo più materialistico, chi con uno sguardo più mistico, ma sempre con un qualcosa di melanconico ed eccitato al contempo.
Non possedendo la ricetta del tempo in sé ma al massimo la ricetta del buon vivere nel tempo così come esso è, possiamo chiederci dunque dove giunge questo viaggio, con il tempo, nel suo divenire senza salti e senza risparmi d’inevitabili ardue esperienze, oltre la coltre omnisciente del piacere e in una miscela quasi inconsapevole di sensazioni, maturazioni, aspirazioni eterogenee da mettere poi in ordine vocazionale.
Le riflessioni di Giovanni Paolo II, curate nell’antologia di raccolta da Montonati, continuano così, a proposito della fine dell’anno: “La nostra vita si consuma; i nostri anni se ne vanno… E dove? Dove sfocia questo tempo, che trascina inesorabilmente la storia umana e la personale esistenza di ciascuno? Ecco dove il Natale spande già la sua prima e meravigliosa luce: la storia umana non è un labirinto assurdo e la nostra esistenza non va verso la morte e il nulla”.
Eppure c’è chi ha scritto, parabolicamente, che “vorreste misurare il tempo che non ha misure e non può essere misurato” (Kahlil Gibran, ne “Il profeta”), continuando poi a dirigere la parola per scolpire ai posteri che “ciò che in voi è senza tempo è consapevole dell’eternità della vita”.
Dalla trascendenza dell’io attraverso l’io dell’altro nello stesso tempo, alla trascendenza dell’io di un tempo all’io di un altro tempo, dalla transpersonalità alla unicità ed irripetibilità dell’esperienza esistenziale per ciascuno, il tempo rappresenta la dimensione entro ed oltre la quale si può coltivare una vita che si elevi al di qua dell’immensità d’oltretomba. Nel dovere d’esser forti oltre ogni fragile umana natura per coloro che ancora vivono, guardando avanti nel ricordo possente e malinconico di chi per malattia, vecchiaia, pandemia o autodistruzione non ce l’ha più fatta a vivere.
Iniziando un 2021 con i piedi più per terra, forse, sapremo riscoprire quel soffio vitale che nelle situazioni sociali e relazionali potremo valorizzare, meglio; magari ritrovandoci in qualche altrove inaspettato con inaspettati voli e atterraggi momentanei, prima di rispiegar le ali.
[…] -“La fine del 2020 con i piedi per terra e poi chissà”, pubblicato su ‘Odysseo’ il 30.12.2020. Il link ad oggi è: https://www.odysseo.it/la-fine-del-2020-con-i-piedi-per-terra-e-poi-chissa/ […]
[…] -“La fine del 2020 con i piedi per terra e poi chissà”, pubblicato su ‘Odysseo’ il 30.12.2020. Il link ad oggi è: https://www.odysseo.it/la-fine-del-2020-con-i-piedi-per-terra-e-poi-chissa/ […]