Nel quarto centenario dalla nascita
Quattrocento anni fa a Clermont, il 19 giugno del 1623, nasceva Blaise Pascal, ragazzo prodigio, precoce genio scientifico e matematico, filosofo, che fu, secondo la definizione di Chateaubriand, “genio terribile, che mise sulla carta pensieri che stanno tra il divino e l’umano”.
Come Agostino, Pascal ha scandagliato l’animo umano, fino a sondarne gli abissi più profondi e nascosti, e qui è inciampato in Dio che, più che una risposta, è una domanda che tutti ci portiamo dentro, anche senza necessariamente saperlo. Non però Dio come “soluzione”, ma Dio inteso come questione. Come il problema più alto che il pensiero possa porre.
Egli non ha negato la scienza, come invece molti illuministi pensarono in seguito, ma la limitò, cercando di far capire che, come diranno meglio altri filosofi del Novecento, da Husserl a Wittgenstein, ci sono domande a cui la scienza non riesce a dare una risposta. “La scienza delle cose esteriori – scrive Pascal – non mi consolerà dell’ignoranza della morale, nel momento del dolore; ma la morale mi consolerà sempre dell’ignoranza della scienza”.
In questa direzione, egli capì che l’uomo più che un problema è un grande mistero, che interroga se stesso in cerca di risposte che da solo non può dare. E lo fa, usando la sua dimensione razionale e spirituale, unite in quell’unica tensione che fa dell’uomo un essere cercane e pensante. Per questo mise in risalto sia la sua grandezza sia la sua miseria, con tutti i suoi limiti, comprendendo appieno che proprio la debolezza è il punto di forza che fa di ogni uomo un essere speciale.
“La grandezza dell’uomo – scriveva Pascal – è tale per il fatto che egli si sa miserabile. Una pianta non si sa miserabile. È in effetti un essere miserabile chi conosce la propria miseria, ma è anche grande perché si sa essere miserabile… L’uomo sa di essere miserabile: egli è dunque miserabile, perché lo è; ma è ben grande, perché lo sa”.
Per tale ragione, da un lato aborriva la pretesa di alcuni di considerare l’uomo come autosufficiente, quasi fosse un dio in terra, dall’altro condannava chi, svalutando le capacità umane, non si fidava del fatto che l’uomo possa elevarsi, usando sia la via della ragione per pensare, sia quella del cuore per intuire. Infatti, era convinto che “Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce”.
Ammetteva due vie per arrivare alla verità: quella dell’ “Esprit de géométrie”, tipica della ragione e della scienza, che si limitano a spiegare i “fatti”, descrivendone il “come” e il “perché causale”, e quella dell’ “Esprit de finesse”, propria del cuore, il cui compito non è spiegare o descrivere, ma intuire e comprendere i “significati” nascosti, i quali soltanto riescono a dare un “senso” e un sapore a tutto ciò che esiste.
Famosa è l’uso della metafora della “canna” (il giunco) per definire l’uomo in quello che forse è l’aforisma più noto: «L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura; ma è una canna pensante. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo: un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo. Ma quand’anche l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di chi lo uccide, dal momento che egli sa di morire e il vantaggio che l’universo ha su di lui; l’universo non sa nulla. Tutta la nostra dignità sta dunque nel pensiero. È in virtù di esso che dobbiamo elevarci, e non nello spazio e nella durata che non sapremmo riempire. Lavoriamo dunque a ben pensare: ecco il principio della morale».
Se la più grande miseria dell’uomo sta nel tentare di ignorare i propri limiti, derivanti dal suo essere mortale – ricorrendo a diverse forme di elusione e di evasione, tra cui lo “stordimento di sé”, da Pascal definito “Divertissement”, che oggi paragoneremmo allo “sballo” -, al contrario, la sua grandezza sta nel saper riconoscere tali limiti e rispettarli, riconciliandosi con le proprie fragilità. “Rendiamoci conto dunque – scrive Pascal – delle nostre possibilità: siamo qualcosa, ma non tutto”.
Pascal è il filosofo che non ha inteso il pensiero come tecnica da usare per dominare la natura, attraverso la conoscenza delle sue leggi e dei suoi fenomeni, ma come esperienza interiore e spirituale per conoscersi ed elevarsi, per umanizzarsi, fino a lasciarsi divinizzare dalla grazia di quel Dio, nel quale il pensiero stesso sconfina.
Per questo, riteneva che a Dio non si arriva con processi dimostrativi tramite prove razionali, ma Dio lo si incontra solo quando il cuore, attraverso la via dello stupore, dell’inquieto anelare e cercare, giunge sulla soglia di un Infinito che lo supera e lo comprende, lo attira e lo trascende, e di fronte al quale si sente “sospeso”, come “un tutto rispetto al nulla e come un nulla rispetto al tutto”.
E anche se ha contemplato la bellezza della natura, da lui considerata come “una sfera infinita il cui centro è ovunque, ma la circonferenza in nessun luogo”, egli non si è fermato, ma è andato oltre, per sondare il doppio abisso del tutto e del niente, rispetto a cui non sappiamo proprio poco e nulla.
C’è a riguardo un aforisma molto denso, dove Pascal confessa la propria ignoranza: “Io non so chi mi abbia messo al mondo, né che cosa sia il mondo, né che cosa sia io stesso. Sono in un’ignoranza spaventosa di tutto. Non so che cosa siano il mio corpo, i miei sensi, la mia anima e questa parte di me che pensa quel che dico, che medita sopra di tutto e sopra se stessa, e non conosce sé meglio del resto. Vedo quegli spaventosi spazi dell’universo, che mi rinchiudono; e mi trovo confinato in un angolo d questa immensa distesa, senza sapere perché sono collocato qui piuttosto che altrove, né perché questo po’ di tempo che mi è dato da vivere mi sia assegnato in questo momento piuttosto che in un altro di tutta l’eternità che mi ha preceduto e di tutta quella che mi seguirà…Da ogni parte vedo soltanto infiniti, che mi assorbono come un atomo e come un’ombra che dura un istante, e scompare poi per sempre. Tutto quel che so è che debbo presto morire; ma quel che ignoro di più è, appunto, questa stessa morte, che non posso evitare”.
Se i giovani e gli adulti di oggi leggessero di più Pascal, e altri autori come lui, che invitano a seguire la doppia via della ragione e del cuore, allo scopo di guardarsi dentro e a meravigliarsi di questo Infinito che ci abita e ci sovrasta, che ci atterrisce ma anche ci stupisce, forse avremmo meno persone disposte, per noia e per eccesso di banalità, a seguire, per ore e ore, sedicenti youtuber e influencer che solo per denaro invitano a giocare con la morte, propria e altrui, allo scopo di avere l’illusione di essere immortali. Di essere ciò che non siamo, senza faci vivere fino in fondo ciò che siamo, anche se siamo caratterizzati da incertezza e insicurezza, da precarietà e vulnerabilità.
Infatti, scrive Pascal, “Desideriamo la verità, e non troviamo in noi che incertezza. Cerchiamo la felicità, e non troviamo che miseria e morte. Non siamo capaci di non desiderare la verità e la felicità, e non siamo capaci né di certezza né di felicità. Questo desiderio ci è lasciato tanto per punirci quanto per farci sentire da dove siamo caduti”. Si, perché per Pascal, che rilegge tutto in chiave biblica, l’uomo non è altro che un “roi déchu”, un “re spodestato”, caduto dalla sua signoria a causa del peccato. E il dolore non è altro che questa nostalgia che si prova per una condizione originaria ormai perduta.
Ecco allora l’antidoto contro la banalità: trasformare i nostri limiti in perimetri di possibilità, sui quali il Tutto a cui aneliamo deve fare i conti con il Nulla in cui ogni tanto stazioniamo. Trasformare l’anelito – ogni anelito, ogni desiderio – in uno slancio di vita, il quale, anche se doloroso, è ciò che unicamente ci salva dalla noia e dalla apatia, dalle stupide imitazioni e dalle sterili assuefazioni. Perché la vita non è uno stupido gioco che non porta a niente, ma un appello che ci invita a dare, o a trovare, un senso vero e autentico, il quale si nasconde, disseminato nei mille rivoli della nostra fragile esistenza, come una piccola perla in un vaso di creta.
Ho molto apprezzato questo intervento per il modo limpido e ben documentato con cui propone alcuni punti cardine del pensiero di Pascal a lettori non necessariamente esperti di filosofia, che però continuano ad interrogarsi con serietà sulla condizione umana e sul senso delle nostre vite. I giovani poi non possono che trarre vantaggio dal contatto di figure di insegnanti capaci di accostare al loro vissuto attuale il pensiero di filosofia che, a torto, spesso la scuola non sa proporre nella forza della loro universalità.