Ogni volta le poesie di Paolo sono una sorpresa, un non so che di intrigante che induce a riflettere e a commentare. Questa volta l’occhio del Poeta si è fermato su qualcosa che per sua natura è impoetico, noioso, spersonalizzante: mettersi in coda dietro uno sportello. La faccenda di per sé sa di Uomo, ma se poi lo scopo di quella “fila” è la pensione, coi tempi che corrono, ritrovarsela in una poesia pungola il cuore del lettore, che scorge in questi versi senz’altro un po’ della sua vita, delle sue sofferenze.

La lirica in oggetto è un piluccare rapido di situazioni, colte qua e là come da una mano che ruba furtiva acini d’uva che si rivelano amari; una mano che, nel groviglio delle aspre situazioni della vita, tira a caso qualche filo cercando di dipanarlo. Quella, poi, che potrebbe essere la dura chiusa del brano Polvani la spiattella all’inizio con una metafora: la fila si allunga e l’ultimo arrivato è sempre più lontano dal primo, proprio come gli anni della nostra vita: più felici e vigorosi i primi, più stanchi e sfiduciati gli ultimi.

Ed ecco la rapida descrizione, a campione, di chi sta in quella fila. Non sono individui, non ne scorgiamo i volti ma solo alcuni oggetti; una sola parte del corpo (le gengive), viva ma fattasi cosa per il suo indurimento. Non descrizioni fisiche ma situazioni, abbozzate in tutta fretta e roride di dolore: figlio morto, moglie demente. E accanto a queste dolorose situazioni ecco un inconveniente, un incidente che fa sorridere: i colombi “te la fanno in testa”. Qui si gioca tutta la cifra drammatica della lirica: Polvani abbassa di colpo, declassa, la tragicità dell’esistenza terrena portandola giù giù al livello di fastidioso incidente quotidiano. I livelli di sofferenza si fondono, dolore e semplice disappunto vengono proiettati sullo stesso piano e il secondo elemento attenua il primo. Anche ai desideri tocca la stessa sorte: mangiare il parmigiano o spassarsela con le ragazze attengono a due diverse categorie di bisogni umani, ma entrambi i desideri vengono di colpo frustrati e livellati dall’indigenza economica, che fa serrare la mano attorno al poco denaro messo in tasca.

Qualcuno sorride a fatica, ma nessuno appare triste: stando in coda dietro uno sportello si vive l’attimo, si mettono in pausa mente e cuore, si volge altrove l’attenzione; deverto si direbbe in latino.

Nella fila ci si trastulla come uno scolaro sguazzando nella propria giacca più larga del dovuto. Sottile qui il passaggio da questa similitudine allo squallore dell’abito del matrimonio che appare “spaiato”, come a voler ricordare al lettore che ciò che in passato abbiamo unito ora non lo è più, ciò che prima ci rendeva orgogliosamente belli adesso ci copre e basta; l’usura del tempo non è la stessa, né per le cose, né per le persone: segue ritmi diversi. I due pezzi di un abito, giacca e pantaloni, rappresentano la contingenza dell’esistenza terrena, la casualità di cose che si appaiano solo per un po’; rappresentano altresì il vano tentativo dell’uomo di accoppiarsi, di fondersi con l’altro, di collaborare, di interagire, nel lavoro, nell’amore, nel gioco. Persone e cose incrociano qualcuno o qualcosa e poi se ne distaccano, via per il proprio destino. E il distacco è lutto, è perdita.

Anche gli oggetti presenti nella lirica non sono descritti e appartengono a categorie diverse, protesi, capi d’abbigliamento o una loro parte (tasca), soldi, impalcature, cibo, animali, ecc. È un disordine lessicale e concettuale che trasmette il senso della precarietà della vita e della contingenza di cui si è detto; la fila stessa, anche la fila più ordinata, diventa l’esposizione itinerante, cioè la mostra in cammino, dell’incredibile varietà dell’essere e dell’esistere.