Il canto dei figli di silenzio e povertà viene a urlare a questo mondo, sempre più chiassoso, la gioia pura dell’essere semplici.
È musica, è vento. È singhiozzo di bambina che piange, è squillo di risata. Passa, ed è inafferrabile, dolce è il suo tocco, puro il suo sguardo. È la parola, la figlia del silenzio.
Mi avvolgo docile nel mistero di questa creatura, figlia di chissà quali labbra primordiali, suono che ha squarciato il caos confusionario, lo ha diviso come lama tagliente, facendosi spazio nei tempi. Chissà cosa sarà accaduto ai primordi del mondo: non sarà stato che un attimo e tutto è generato. Una parola che viene dall’infinitamente lontano è l’inizio dei tempi e noi e ogni cosa fuori e dentro, percorrendo a ritroso a larghe falcate i giorni, i secoli, il tempo, siamo figli di questo tacito dire.
Il silenzio fertile ha custodito, sin dall’eternità, questa parola, che, nella frazione di un istante, ha squarciato questa mistica coltre afona: non fu un violento squarcio, ma piccole mani leggere che aprirono uno spazio. La voce flebile di questa bambina, la figlia del silenzio, ha originato la vita.
Fu così che lo strappo si è irrimediabilmente prolungato, lacerando tempi, spazi, luoghi, cuori, giungendo fino a noi. Con meraviglia, mi accorgo che quella sdrucitura che portiamo nel cuore porta qualcosa, in sé, di quello strappo primordiale: è il brandello senza senso dell’anima che segna ogni uomo su questa terra come radicalmente incompleto. È il lembo grezzo e sfilacciato della povertà, della mancanza. Tuttavia, pur non sembrandolo, è la parte più nobile dell’abito che indossiamo, che spesso nascondiamo per mostrare di essere all’altezza del gran galà di facciata a cui talvolta riduciamo la nostra vita.
In questa matassa di inchiostro e carne, ecco stagliarsi i volti di silenzio e povertà, nostri genitori: siamo generati da essi, e radicalmente, costitutivamente ne portiamo le tracce. È inscritto nell’intimo di quel che siamo: le mie mani, i tuoi occhi, le nostre labbra, i nostri pensieri, le speranze, i desideri, tutto dice questa figliolanza. La parola originale, la figlia del silenzio, si fa vicina a noi, si rende umilmente sorella maggiore della nostra umanità.
Che cos’è il silenzio? Esso mostra numerosi volti, che mutano a seconda della prospettiva con cui ci si accosta ad esso: è il dolce velo che conserva le cose, le avvolge nel mistero, le difende. È il grembo che vedere concepire e crescere le scelte, prima che nascano al mondo. È padre. Può essere autoritario, spaventoso, disarmante, ed essere delicato come neve che cade. Il silenzio può essere esplicito e caloroso, come due sguardi che si amano e si incrociano, oppure glaciale e indifferente, assassino. Può essere sordità o scelta sapiente, può essere evasione o, invece, un modo autentico di stare al mondo. Il silenzio è un appuntamento che, nella vita, non è possibile evitare. Rimandare, forse, provando a colmarlo di chiasso, gettandosi in turbini anestetizzanti di cose da fare, ma il cuore prima o poi sussulta in quegli slanci di verità con cui tenta di ritrovare se stesso.
Capita di sprofondare nel silenzio, senza volerlo, perché la vita costringe a starci dentro. E allora in tutto questo è inevitabile perdere le parole, quelle di cui noi, crescendo, diventiamo genitori, succede di lasciar loro la mano e smarrirle. Oppure vederle appassire, spegnersi, morire. Diventano suoni estranei, che escono, sì, dalle labbra ma senza riconoscerle più. Come una madre che vede appassire un figlio nel grembo, allo stesso modo le parole possono sfiorire, essere abortite. È un trauma, a volte, che divora e disarma, lasciando privi di forze. Pian piano aumenta il distacco, e quelle parole, nostre figlie, che erano dono per il mondo, diventano aria, chiacchiera. Perfette sconosciute.
Ma è lo stesso silenzio, da cui veniamo, che si fa vicino a riscoprire la mano delle nostre parole smarrite. Stringerla è un colpo al cuore: è riassaporare il gusto di una parola che dice veramente chi noi siamo. Non sono un soffio, un tiro di sigaretta che brucia le labbra e si palesa per qualche attimo in fumo che si disperde. Le parole sono creature in relazione e di relazione, che vanno in cerca di altre per costruire, nel dialogo, ponti fra uomini.
Delle parole non bisogna farne gioco. Ognuno di noi è responsabile del bene e del male che potrebbero arrecare nel loro viaggio per il mondo, ma nella misura in cui con coscienza le lasciamo andare, esse sono libere e adulte: sono figlie che lasciano il nostro tetto in cerca del loro futuro.
La parola e il silenzio, perciò, nell’equilibrio sano dei loro spazi e dei loro tempi, si scoprono complementari, vicendevolmente bisognosi l’una dell’altro. Non esiste parola matura che non sgorghi da un saggio silenzio e non esiste silenzio che si chiuda in uno sterile mutismo, che smorzi le parole, che non cerchi l’altro.
La povertà è il volto genuino della parola: solo quelle che si mostrano semplici trovano accoglienza nei cuori di chi sa ascoltare. Le parole povere non sono superbe, altezzose: hanno l’umiltà di riconoscersi incomplete e covano dentro di sé l’intima speranza di essere considerate, raccolte, custodite. Sanno abitare lo spazio di chi le riceve, sanno mescolarsi e rinascere con significati inaspettati, tutte particolari, imprevedibili, per creare in questo nostro mondo qualcosa di bello e nuovo.
Solo così si riscopre la bellezza di comunicare, un parlare che non sia vano, uno sproloquio vanaglorioso che lascia il tempo che trova, ma unisce insieme tutti gli uomini da quei lembi sfilacciati delle proprie povertà, per fare di noi un esercito di poveri felici, tessendo intrecci di parole povere, che diventano righe mai udite di un canto. È il canto dei figli di silenzio e povertà che viene a urlare a questo mondo, sempre più chiassoso, la gioia pura dell’essere semplici.