Sette note, le solite, quelle che impariamo da ragazzini tra i banchi di scuola. Infinite combinazioni che si incastrano alla perfezione fino a formare qualcosa di nuovo, un’originale sinfonia che ci sembra di aver già ascoltato. Probabilmente nella musica non c’è creazione, tutto esiste già, viaggia nello spazio etereo per essere afferrato da chi, in fondo, ha una sensibilità diversa dalla nostra, una percezione del senso armonico assolutamente non comune.
Proprio tra quei banchi di scuola ho conosciuto Federica Fornabaio, una ragazza che di comune, credetemi, ha ben poco. Dietro uno scudo apparentemente indistruttibile si nasconde una personalità prismatica, nella quale mille pietre preziose contribuiscono ad emanare una luce accecante. Quando l’ho vista per la prima volta sfiorare i tasti di un pianoforte, mi sono immediatamente reso conto di essere di fronte all’unicità dell’essere umano. Le sue dita esili accarezzavano, con forza, tasti bianchi e neri, un contrasto che in “Ora, domani, mai più” riaffiora con più insistenza. Quel climax emozionale ci comunica archetipi di una vita tormentata ma ambiziosa. Commenta Federica: “È lo scontro tra due linguaggi diversi, dove la calma piatta incontra il desiderio di progredire, di sperimentare, accettando i rischi che ogni scelta radicale comporta’’.
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Quello che per molti è un hobby, per Federica è un lavoro, una passione che le dà da vivere, un amore per cui è disposta a mettersi in gioco. Nonostante, da anni ormai, si sia trasferita a Roma per sfuggire a quei pregiudizi di cui il mondo musicale è pieno, l’esperienza capitolina non le ha fatto cambiare idea: “Frequentando certi ambienti del mio settore ho capito che l’Italia è un paese maschilista’’.
Federica l’aveva intuito prima di tutti, lottando, sin dall’adolescenza, contro il cliché della bellezza. Lo scudo, dicevamo, quei cancelli che pochi riescono a valicare, l’ingiustificato disagio di chi, pur di farsi accettare, è costretto ad omologarsi con gli stereotipi di una Città non ancora pronta ai vezzi estetici di una talentuosa artista: “Ogni volta che torno a Andria trovo un ambiente sempre più emancipato. Se solo avessi di nuovo sedici anni…”
Ma di tempo ne è passato e con esso anche la frustrazione di chi ha cercato invano di demolirla: ‘’Vittima di bullismo, ero schiava della mia stessa libertà. La limitazione d’espressione genera mostri’’. Fede è riuscita dove gli altri musicisti del posto hanno fallito. Ha trasformato i canoni della donna del Sud, rovesciando lo Stivale e calcando il prestigioso palco dell’Ariston dove, quasi sei anni fa, ha diretto l’orchestra di Arisa e Marco Carta, vincitori di quell’edizione del Festival di Sanremo: ‘’Ero nel mio posto del Mondo. L’orgoglio di avercela fatta cozzava con la volontà di non apparire, la riservatezza soffocava un’indescrivibile felicità’’.
Già, la felicità. Quella chimera che tutti sperano di trovare ma che, pensandoci bene, è insita in tutto ciò che ci circonda. Possiamo scovarla in due grandi occhi che guardano l’infinito, l’orizzonte che unisce cielo e mare. Un’amicizia incommensurabile, una sana ossessione, “L’ossessione del mare’’, appunto. È questo il pezzo a cui tiene di più, il suo capolavoro per eccellenza. Ecco le infinite combinazioni che si incastrano, un quartetto di flauto, viola, violino e violoncello che, come elettroni, sono attratti da un nucleo, il pianoforte, che sprigiona energia musicale.
Leon Battista Alberti ha scritto: “La bellezza è quel talento a cui non serve aggiungere né togliere nulla’’, una qualità che, in effetti, si può evincere da tutte le sue composizioni, a dimostrazione di quanto la quantità lasci il passo ad una qualità che rasenta il dono divino, quasi un potere magico di chi è stato mandato in mezzo a noi per chiudere il cerchio e inserire l’ultimo tassello del nostro puzzle.
Un puzzle atipico, un pezzo di carta, il diploma tanto agognato, quel banco accanto al suo che avevo abbandonato e che lei non ha mai smesso di tenermi riscaldato, aspettando il mio ritorno, disseminando briciole di pane che mi riconducessero nella giusta direzione, come in una fiaba o sceneggiatura che si rispetti, un film, il nostro, a cui un giorno, chissà, regalerà una colonna sonora, una delle tante che ora scrive per professione. La gioia di un traguardo raggiunto insieme, tra le spensierate chiacchierate di due diciottenni e quel suo sottile godimento nell’andare sempre controcorrente, con la speranza che la prof le mettesse finalmente quella benedetta… nota!