Cos’hanno in comune il volo e la debolezza?
Vi sta capitando di vedere gli stormi di uccelli in volo? Spero di sì: è uno spettacolo imperdibile e affascinante, denso di mistero giacché nemmeno gli studiosi di volatili sanno ben spiegare come facciano a coordinarsi e a fluttuare nell’aria in quel modo.
Se ne colgono insieme l’unione e la distanza, l’accordo e le differenze, la collaborazione e l’iniziativa: le relazioni sane funzionano così, il noi prevale sull’io senza che l’io per questo scompaia (anzi!), in un gioco di equilibri da imparare ogni giorno. Perché fare posto all’altro è una missione quotidiana, ma soprattutto un esercizio di debolezza.
Si dice che l’unione fa la forza. Ed è vero! Ma l’unione presuppone la debolezza: di retrocedere, di non colonizzare tutti gli spazi, di tacere, aspettando che l’altro arrivi a ciò che noi abbiamo già capito da un pezzo e, possibilmente, evitando di farglielo notare. La debolezza di parlare chiaro, di schierarsi, di porre dubbi e domande, cose che mettono a nudo ed espongono a incomprensioni, a volte a persecuzioni. E infine la debolezza di chiedere perdono, invece di pretendere prepotentemente le scuse dall’altro, nella convinzione malata che sia lui a non accorgersi dei suoi errori, che sia lui quello in torto, con la smania, maldestramente mascherata di nobile eloquenza, di vederlo semplicemente prostrato a terra, al cospetto del nostro ego smisurato. La debolezza qui in questione non implica l’umiliazione, sia chiaro!
Ma cos’hanno in comune il volo e la debolezza? “Volare” è una parola complicatissima: la sua radice gval– è a sua volta connessa alla radice gar– che, tra i tanti rimandi di significato, comprende “slanciarsi”, “scorrere”, “cadere”, “scivolare”, “staccarsi”. Che strano! Volare dovrebbe essere metafora di libertà massima, di superiorità, di potenza, di autosufficienza, di tecnica e bravura in sfrenata competizione. E invece l’etimologia della parola rivela una varietà sconcertante e ambivalente, per giunta sbilanciata su quanto di più contrario esista rispetto alla forza assoluta.
Volare significa slanciarsi al massimo nelle proprie potenzialità e scorrere nei cieli dell’esistenza come ruscelli di gioia, cose delle quali tutti siamo meritevoli. Ma volare implica il distacco, anzitutto dai nidi sicuri, che ci proteggono dagli sforzi e dalle crisi. Poi dalle situazioni soffocanti, dai volti insoddisfatti e infastiditi dal nostro volo, per cui decisi a tarparci le ali e a tirarci violentemente giù. Infine da chiunque ci circondi: lo spazio concesso ad ognuno perché respiri e si muova distingue la relazione dalla simbiosi. Nello stormo gli uccelli mantengono una distanza precisa: essi conoscono il valore del distacco da quando sono spinti giù dal nido e lo conservano da adulti, quando sono chiamati a fare squadra per affrontare le insidie dell’inverno.
La levata di uno stormo non è facile, perché la debolezza che lo rende possibile è una cosa molto difficile. Chissà se nel nostro caso una vita intera basta per abdicare definitivamente alla forza aggressiva ed egocentrica accovacciata sulla soglia del cuore. Non importa: l’importante è allenarsi nei piccoli gesti quotidiani di cura, vera palestra del noi, vera cartina al tornasole di ogni acclamatissimo discorso. Le cadute rovinose e gli scivolamenti nello spazio vitale altrui sono tappe obbligate di ogni relazione autentica, rischi di chi coraggiosamente lascia le comodità e si avventura nel mondo dell’adultità. Ce l’ha detto l’etimologia di “volare”, ce lo dice l’esperienza, sempre e molto prima.
Le ali integerrime e perfette sono dei battitori solitari di cieli indubbiamente più vasti e di mete sicuramente più ambite. Le ali sporche, spiumate e provate, però, sono le più robuste, quelle che vanno più lontano perché lo fanno insieme agli altri.
Straordinario!
Non solo bello e ricco dal punto di vista del contenuto… Ma un grande specchio in cui ognuno può ri.. vedere se stesso. Complimenti.
Uno specchio… Non puoi non ri..vederti! Bravissima.