Lo scienziato che non è entrato nel mondo della complessità rimane un bambino

Già i maestri antichi da Socrate a Plutarco avevano sottolineato le capacità maieutiche dell’insegnamento che non consiste nel riempire un sacco, ma nell’accendere una fiamma  e nell’ispirare;  dei normali corsi di Epistemologia e di Filosofia della scienza hanno innescato una piccola scintilla ed un umile interscambio tra docente e studente sino a creare  una simbiosi umana e teoretica nello stesso tempo. Il quasi avido interesse, per non dire vero e proprio bisogno, per tali discipline da parte dello studente ed in questo caso studente-lavoratore, una volta metabolizzati i diversi aspetti e filoni, è scaturito dall’esigenza primaria di capire meglio  la contemporaneità e cosa si annida tra le sue innumerevoli pieghe impossibili da decifrare secondo le logiche del pensiero ad una dimensione consegnatoci da una certa modernità; nello stesso tempo ha portato il docente ad interrogarsi più in profondità sul senso dell’epistemee la sua portata socio-culturale più ampia anche perché  già nel mondo greco, al di là della pur primaria  dimensione conoscitiva, era considerata quasi un faro per le attività umane a partire da quella politica con l’innescare non a caso le prime idee democratiche nella storia dell’umanità.

La  scelta dell’argomento per la tesi di laurea ed i continui rapporti hanno finito per coinvolgerli anche in un   successivo percorso  dove poi risulta difficile delimitare ed individuare i punti di vista di entrambi una volta che  si sono arricchiti e contaminati  gli uni con gli altri, in base anche alle proprie esperienze lavorative;  se poi tale tragitto in comune è trainato tra le altre da una idea ormai divenuta basilare nel pensiero filosofico-scientifico come quella di complessità e utilizzata già come quadro teorico per impostare il lavoro di tesi, si è preso reciprocamente atto che essa può essere ritenuta un vero e proprio laboratorio di attrezzi concettuali con i quali affrontare i problemi umani più cogenti sino a diventare un habitus  non solo mentale. Una volta metabolizzati gli scritti di Edgar Morin e Mauro Ceruti e i contributi non secondari di altri protagonisti del pensiero complesso, si è pervenuti insieme alla sua necessità come base per rivedere gli stessi percorsi intrapresi, quasi come una nuova personale paideia  nel senso greco del termine, fra l’altro esigenza primaria che si avverte in più campi sia teorici che esistenziali.

Frutto di tale fecondazione bilaterale è stata  l’idea di epistemologia  come  disinfettante (http://filosofia.uniurb.it/l’epistemologia-come-disinfettante/ 8 novembre 2016) ritenuta implicita in ogni sano discorso sul senso veritativo della scienza e ritenuto uno strumento per liberarla, sulla scia della tradizione francese orientata più in senso storico cha va da Gaston Bachelard ed Hélène Metzger a Georges Canguilhem e ad Edgar Morin, dalle visioni riduttive e da false immagini che spesso l’hanno caratterizzata; e questo perché tali visioni deformanti  poi  sono servite e continuano ad essere, anche se in forme diverse tutte da scandagliare, da supporto di ideologie vecchie e nuove di stampo totalitario. Non è dunque un caso se da varie  parti si sta mettendo sempre più in risalto la stessa dimensione ‘politica’ implicita nel discorso epistemologico ed in tal senso si stanno impegnando dei giovani ricercatori, come ad esempio Gerardo Ienna e Andrea Angelini, nelle loro acute analisi  dei rapporti tra scienza, epistemologia e politica in ambito francese, dove  questo aspetto è stato più che in altre tradizioni di ricerca affrontato con strumenti appropriati sino a diventare uno dei capitoli più interessanti della cosiddetta epistemologia sociale.

Ma dove questo duplice aspetto, insieme teorico e politico, emerge di più in tutta la sua cogenza è proprio nell’epistemologia della complessità in quanto diversamente di altri approcci ha vissuto al suo interno il fallimento sistematico dei principi e delle metodologie basati sui canoni di una visione unilaterale del reale con il consequenziale passaggio critico dall’’assoluto al relativo’  senza cadere in posizioni scientiste da una parte e antiscientifiche dall’altra che poi diventano punto di riferimento in ambito  politico; in tale processo di costruzione di una vera e propria ‘nuova ragione’ ancora in atto è  inevitabile il persistere di posizioni, anche da parte degli stessi operatori scientifici, che a volte tramutano semplici ‘ipotesi in dogmi’, come diceva lucidamente Pavel Florenskij negli anni ’30 alimentando così un ‘pensiero tendenzioso’ o, a dirla con Karl Popper, una ‘filosofia dubbia’. Per evitare sulla scia di Karl Jaspers che una parziale determinazione di un fenomeno possa diventare totalizzante con esiti devastanti a tutti i livelli da quello più propriamente cognitivo a quello politico, una ‘sana’ epistemologia della complessità può operare come un necessario disinfettante nei confronti di tali sempre presenti ‘tentazioni’, come le chiamava Hélène Metzger.

Per questo in alcuni ambienti filosofico-scientifici la riflessione epistemologica è così mal tollerata, mentre nel pensiero complesso essa è strategica dove il vero scienziato si dimostra consapevole dei limiti della sua disciplina e vede in essa un disinfettante indispensabile per i suoi strumenti, i suoi ambienti, i suoi metodi e soprattutto per le sue ferite: le delusioni nascoste dietro ogni angolo della ricerca e della vita. Lo stesso   passaggio  dall’assoluto al relativo non viene vissuto in maniera traumatica, ma come un necessario percorso verso l’alba di un mondo aperto che richiede un ripensamento radicale delle vecchie categorie di pensiero, un pensiero  all’altezza per abitarne le frontiere sempre mobili e  in grado di gestire in modo più razionale i processi di decentramento impliciti, non facili da digerire per una comunità socio-epistemica che si formata e continua a pensare secondo l’habitus mentale di stampo cartesiano, come diceva Gaston Bachelard.

Lo scienziato immaturo che non è entrato nel mondo della complessità o ne sottovaluta le diverse potenzialità, e sulla sua scia l’uomo del XXI secolo più in generale, rimane ‘bambino’ che non vuole prendere atto di tale nuova situazione; e meno consapevole della sua utilità, ha sempre temuto e continua a temere l’approfondimento epistemologico perché ‘brucia’ come l’alcool su una ferita e quindi lo evita giudicandolo non rilevante. Il pensiero complesso condanna senza appello tale atteggiamento rinunciatario e ‘dimissionario’,    tipico delle Weltanschauungen   dal respiro corto come si erano ridotte quelle di ispirazione cartesiana ed idealistica prima e quelle vecchie e nuove strettamente di matrice empiristica dopo, per usare un’espressione di un filosofo della matematica francese morto non a caso combattendo nella Resistenza come Albert Lautman;  e  nello stesso tempo  ne denuncia gli esiti ‘politici’  in quanto  può rivelarsi a volte come l’anticamera di posizioni ideologiche che, oltre a ricondurre le conoscenze scientifiche a livello della razionalità strumentale anche grazie alla complicità di certe note filosofie di successo, producono in campo sociale processi di deresponsabilizzazione deleteri per la condizione umana.

Inoltre il pensiero complesso non si limita a disinfettare la ragione dalle scorie cartesiane e per sua struttura non  nasconde le difficoltà ed i problemi non risolti presenti al suo interno, come quello relativo al fatto che per comprendere le ‘relazioni’ si è costretti ad entrare nelle singole gabbie che ci costruiamo ed una volta entrati  rischiamo di rimanerne affascinati; l’irruzione poi della storicità all’interno della sua prospettiva diventa un formidabile antidoto contro tali a  volte inevitabili affascini ma ci preserva dalle ormai vuote ma sempre pericolose assolutizzazioni. Ma esso ha la capacità di trasformare in risorse cognitive  le difficoltà che si producono all’interno del percorso come quella connessa all’assenza di linearità nei processi di lunga durata; in pratica non possiamo, neppure teoricamente, immergerci in un mondo precedente perché contaminazioni di varia natura, comunque irreversibili, finiranno per condizionare il nostro modo di pensare e agire. Questa consapevolezza socio-epistemica ci apre una strada tesa a ‘disinfettare’ nel miglior modo possibile il campo di lavoro comunque sempre in fieri; se già di per sé lo strumento epistemologico rettamente inteso è un efficace disinfettante o, come diceva Hélène Metzger, un vero e proprio rimedio razionale per stare alla larga da qualsiasi pensiero ad una dimensione, a maggior ragione lo è quello messo in atto nel pensiero complesso perché irrobustito dai contenuti di verità sempre più polifonici emergenti nei diversi ambiti di ricerca che chiedono solo di essere più rispettati e difesi dalle lusinghe delle cassandre sia scientiste che antiscientiste.

Mario Castellana e Paolo Zizzi


FontePhotocredits: Roberto Strafella
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Mario Castellana, già docente di Filosofia della scienza presso l’Università del Salento e di Introduzione generale alla filosofia presso la Facoltà Teologica Pugliese di Bari, è da anni impegnato nel valorizzare la dimensione culturale del pensiero scientifico attraverso l’analisi di alcune figure della filosofia della scienza francese ed italiana del ‘900. Oltre ad essere autore di diverse monografie e di diversi saggi su tali figure, ha allargato i suoi interessi ai rapporti fra scienza e fede, scienza ed etica, scienza e democrazia, al ruolo di alcune figure femminili nel pensiero contemporaneo come Simone Weil e Hélène Metzger. Collaboratore della storica rivista francese "Revue de synthèse", è attualmente direttore scientifico di "Idee", rivista di filosofia e scienze dell’uomo nonché direttore della Collana Internazionale "Pensée des sciences", Pensa Multimedia, Lecce; come nello spirito di "Odysseo" è un umile navigatore nelle acque sempre più insicure della conoscenza.