Nei due dialoghi Timeo e Crizia, Platone descrive accuratamente l’isola di Atlantide, una potenza navale situata poco oltre le celeberrime Colonne d’Ercole, quelle, per intenderci, che delimitavano il confine del mondo, l’interspazio tra fenomeno e noumeno, il visibile e l’immaginabile. Secondo Platone, Atlantide sarebbe sprofondata ‘’in un singolo giorno e notte di disgrazia’’ per opera di Poseidone, il dio del mare dalle facili turbe mentali.

Ma quell’isola così ricca di mistero, nei secoli, ha continuato a tornare a galla come verità scomode, segreti sottaciuti, sogni compressi in un cassetto dal quale bramano di venir alla luce. Già, i sogni. Speranze di sopravvivenza che, nel primo Novecento, solevano imbarcarsi alla volta di terre lontane. Stavolta, però, le Colonne d’Ercole c’entrano poco. Europa ed Africa non garantivano le stesse dinamiche lavorative di un’America progressista, un’America fin troppo liberale per un uomo di mezza età residente a San Francisco.

Ivan Bunin, letterato russo di primissimo livello, raccontò proprio l’epopea di questo strano quanto insolito essere umano. “Il Signore di San Francisco”, infatti, rappresenta il microcosmo intellettuale privo di indulgenze e princìpi. La narrazione si svolge, sostanzialmente, a bordo di un transatlantico sulla cui prua spadroneggia, a caratteri cubitali, il nome di Atlantide. Una coincidenza? Niente di più falso. Assonanze e citazioni per Bunin avevano la priorità in un’opera al limite dell’allegorico. Il Signore di San Francisco fuggiva dal suo mondo, forse ovattato, ma certamente corrotto. In compagnia di moglie e figlia non ci stava granché bene, anzi, avrebbe voluto liberarsene. Sarebbe sbarcato a Capri, proprio dove Ivan Bunin trascorse i primi inverni del ventesimo secolo, in solitudine, lontano dai moti bolscevichi che avrebbe, successivamente, abbracciato arruolandosi nell’Armata Bianca.

Ciò che, realmente, infastidiva il Signore di San Francisco era la leggerezza con cui gli ospiti della nave affrontavano il viaggio. Secondo il protagonista, risa, balli e canzoni distoglievano l’attenzione dall’aspetto semantico della vita; tutto doveva mirare alla contemplazione della propria identità. Il mare, l’eleganza e lo stile di Capri incorniciavano correttamente lo stato d’animo di un carattere duro ma riconoscente del riposo che Dio gli stava concedendo. Un riposo eterno. Ma mentre il Signore di San Francisco moriva, la carriera di Bunin s’impennava salendo, celermente, i gradini dell’alta società.

Nel 1933 gli fu assegnato (per la prima volta ad uno scrittore di nazionalità russa) il Premio Nobel per la Letteratura. Fermo oppositore del nazismo, durante l’occupazione si fece carico di ospitare un ebreo nella sua casa di Grasse.

Mentre giocava a scacchi nel giardino di un resort caprese, Bunin chiese ad un cameriere di portargli della vodka ma questi gli intimò che ne aveva versato l’ultimo goccio nel bicchiere di Lenin. Indispettito, Ivan Bunin rispose: “Lasciate che gli altri abbiano carisma, io mi accontento della classe”.