L’alfabeto di Dante

Al verso 100 del trentesimo canto del Paradiso leggiamo:

Lume è là sù che visibile face

lo creatore a quella creatura

che solo in lui veder ha la sua pace. (Par. XXX, vv. 100-102)

 

Si osservi che Dante parla della luce di Dio che informa di sé tutti gli uomini, esattamente al verso 100 (numero che esprime la completezza) del trentesimo canto della terza cantica (3 è il numero della Trinità). Attraverso questi segnali numerici, il poeta richiama l’attenzione del lettore su un concetto fondamentale di tutto il Paradiso e, più in generale, di tutta la Commedia: la luce. Ma prima è necessario sostare sui primi due regni.

L’inferno, luogo della perdizione e del male, è il «loco d’ogne luce muto» (Inf. V,28), sottratto allo splendore di Dio e al suo calore – il ghiaccio e il gelo costituiscono il paesaggio dell’inferno più basso, quello in cui abitano i traditori, i peccatori più infimi che hanno tradito perfino gli affetti più cari. Se Dio è luce e in lui non c’è tenebre alcuna, come afferma San Giovanni nella sua prima Lettera, l’inferno, in cui Dio è negato nella sua essenza, non può che essere avvolto da un’oscurità che è allo stesso tempo nota paesaggistica e morale. Le tenebre diventano fitte e impenetrabili, interrotte solamente dai bagliori del fuoco che brucia e arrovella le anime dei dannati.

Il purgatorio si distingue per il suo «dolce color d’oriental zaffiro» (Purg. I,13), un paesaggio che dipinge poeticamente la speranza delle anime di poter al più presto godere della visione e, quindi, della comunione con Dio. Da qui i continui riferimenti del poeta all’alba, il momento in cui l’oscurità della notte viene a poco a poco vinta dalla luce del sole nascente. «Di buon mattino – si legge nel vangelo della risurrezione – le donne vennero al sepolcro al levar del sole» (Mc 16,2). Così il sole che sorge diventa una potente immagine di Cristo che risorgendo dalla morte vince «le tenebre del peccato con lo splendore della colonna di fuoco»[1]. La particolare bellezza del Purgatorio è proprio nel clima di attesa che lo contraddistingue: come sulla terra l’uomo attende l’alba per dare inizio ad un nuovo giorno dopo il riposo della notte, così le anime della santa montagna attendono lo spuntare del sole –giacché di notte è vietato procedere- per riprendere il cammino verso la salvezza piena e definitiva del paradiso

Lasciato alle spalle il regno del male, attraversato quello della purgazione, il pellegrino arriva finalmente nel cielo, lì dove tutto è luce, splendore, e trasparenza:

luce ed amor d’un cerchio lui comprende (Par. XXVII, 112)

e ancora:

…questo miro e angelico templo

che solo amore e luce ha per confine (Par. XXVIII. vv.54-54)

fino alla sublima terzina in cui il poeta condensa nella luce che sprigiona amore e gioia l’essenza stessa di Dio:

luce intelletual piena d’amore,

amor di ver ben, pien di letizia,

letizia che trascende ogni dolzore. (Par. XXX, vv. 40-42)

Dio è luce non fisica ma intellettuale, che intuisce Dio e si sostanzia d’amore; questo amore porta una gioia che supera ogni altra dolcezza – «dolzore»- umana. In questa terzina, «dove le parole luce, amore, letizia, dolzore, intrecciandosi e quasi accavallandosi, esprimono, in modo, straordinariamente nuovo, l’ascendere dell’anima alla beatitudine di Dio»[2], il poeta ci dà una prova della sua grande capacità di invenzione poetica, portando al massimo grado lo sforzo di esprimere in parole, suoni, immagini e colori, ciò che non può essere espresso. Di questa stessa luce paradisiaca sarà «fasciato» Dante per essere sempre più preparato, nella sua facoltà visiva, a sostenere lo sguardo di quel punto luminosissimo che è Dio:

 

Come sùbito lampo che discetti
li spiriti visivi, sì che priva
da l’atto l’occhio di più forti obietti,
così mi circunfulse luce viva,
e lasciommi fasciato di tal velo
del suo fulgor, che nulla m’appariva.  (Par. XXX, vv. 46-51)

Come un lampo che accechi la vista non permettendole di distinguere le altre cose più luminose, così la luce «circonfulse» la vista di Dante lasciandolo avvolto da un velo che gli accecò gli occhi. Ad ogni accecamento segue una più potente illuminazione, fino a quando, di gloria in gloria, il pellegrino sarà finalmente pronto a sostenere la visio Dei:

E drizzeremo li occhi al primo amore,
sì che, guardando verso lui, penètri
quant’è possibil per lo suo fulgore» (Par. XXXII, vv. 142-144)

[1] «…peccatorum tenebras columnae illuminatione purgavit»: così l’Exultet, l’antico canto che inneggia al Cero pasquale, simbolo del Risorto. Data la grande attenzione di Dante per il tema della luce, è solo un caso che in questo canto vi sia il termine «purgavit»?

[2] Umberto Bosco e Giovanni Reggio, commento ad locum.

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Mi chiamo Michele Carretta, sono nato il dieci Aprile del 1986 e vivo ad Andria. Figlio unico, credo nei valori alti della famiglia, dell’amicizia, l’amore e in tutto ciò che umanizza la vita e la rende più bella. Mi piace leggere, andare al cinema, suonare e ascoltare musica. Attualmente sono laureando in Letterature comparate, con una tesi sulla Divina Commedia e il Canzoniere di Petrarca, e direttore dell’ufficio Musica Sacra della Diocesi di Andria.