“Sai, nonostante litigassimo tanto, ho sempre odiato vederti partire”
(Principessa Leila, Star Wars)
Di lei si diceva fosse bellissima. Pare avesse una luce sua. Sì, pare fosse bella davvero. Dicevano avesse uno sguardo capace di passare da parte a parte, un volto che attraversato dai raggi del sole giunti dalla finestra, assumeva le sembianze di qualcosa di splendido, labbra turgide, denti perfetti, mani delicate; raccontavano che si muovesse quasi dondolando, che avesse un fare elegante anche mentre addentava un panino e che fosse capace di una forza intrinseca tale, da smuovere altissimi muri di cemento, addirittura umani.
Ancora dicevano avesse un cervello brillante, fosse una persona capace, di un’intelligenza mobile che le consentiva di passare da una cosa all’altra, come fosse sempre il suo mestiere. Eclettica, direbbe chi conosce l’italiano.
Semplice, direi io.
Perché sì, è vero, di bella era bella, di colta era colta, ma aveva una cosa, l’unica che si riconosceva e, non a caso, l’unica per la quale aveva un’innata e profonda parsimonia: il sorriso.
Chiunque l’avesse conosciuta, fosse anche anni prima, non avrebbe potuto confonderla con nessun altro, se lei lo avesse sfoderato quel sorriso.
Glie lo avevano confermato tutte le volte in cui sottolineava di non ritenersi riconoscibile, rispetto ad un tempo: “non ci contare, se sorridi non c’è rischio che chi ti guarda non capisca chi sei”.
Era rarissimo lo facesse ed ogni volta che accadeva c’era qualcuno pronto a ricordarle che era così bella in quei momenti! Avrebbe dovuto reiterarli.
E lei ancor più li nascondeva.
Tutto quanto di lei si diceva, lei lo sapeva e concordava, non era una bugiarda, nemmeno davanti allo specchio, solo che così non si sentiva.
Non c’era nemmeno l’ombra di falsa modestia in tutto ciò: sapeva bene di potersi permettere un certo tipo di abbigliamento, piuttosto che di sostenere un certo livello di conversazioni. Peraltro, il primo lo indossava volentieri, le seconde le affrontava a cuor leggero. Non si nascondeva mai, forse per questo tutto risultava, fuorché ciò che davvero era.
Vale a dire una persona semplice, che avrebbe voluto vivere solo di cose semplici: sognava di andare al lavoro, tornare a casa e non trovare le beghe di una famiglia classica, ma qualcuno che rientrasse dopo di lei senza portare la fede al dito. Un rientro voluto insomma, non obbligato; come avrebbe voluto tornare a casa lei, al sicuro dove le sarebbe piaciuto scegliere ogni giorno di andare, senza la sensazione di doverlo fare; vedeva nei suoi sogni una tavola apparecchiata ed una sola padella sul fuoco pronta per accogliere quelle che in cinque minuti sarebbero diventate banali uova al tegamino, possibilmente bruciacchiate sui bordi, con il formaggio sciolto di sopra ed il pane fresco: una cena preparata in cinque minuti, perché quel rito non togliesse tempo al poco disponibile per la condivisione di qualsiasi cosa fosse accaduta durante la giornata, prima che la stanchezza ed il sonno avessero rapito tutti.
Sognava di poltrire in pigiama il sabato mattina, senza fretta ed impegni all’alba, il divano nel fine settimana senza l’obbligo di uscire e vedere ancora gente, il vino, le pantofole, la lentezza degli unici giorni in cui avrebbe potuto essere concessa. Il plaid in inverno, che avrebbe adagiato su chi fosse stato con lei, laddove si fosse appisolato, il condizionatore sparato a palla d’estate.
Non desiderava feste e grandi eventi, viveva il suo benessere come condizione guadagnata e piacevole, ma non indispensabile: pensava che sarebbe stata esaudita, se la vita le avesse concesso di poter andare ad un concerto o a vedere un film con chi amava i pasti curati, ma frugali, ed allo stesso modo apprezzava l’idea di un tango antico narrato e cantato da voci esperte e delicate; qualcuno a cui avrebbe letto libri, dopo averli accuratamente sottolineati, come una carezza, ed a cui avrebbe consentito di fare qualcosa per lei.
Una volta si era immaginata quasi bloccata con un’auto qualunque nelle stradine di un inesistente borgo medievale e, nelle sue fantasie, aveva pensato a quanto sarebbe stato consolante avere accanto un estimatore di uova al tegamino, pronto a stringerle la mano che teneva sul cambio e a dirle di non preoccuparsi, poiché fino a che ci fosse stato, niente avrebbe potuto andare storto: era lì, avrebbero risolto.
Obiettivamente immaginava situazioni paradossali, anche la sua fantasia era semplice.
Poi rideva di sé, poiché si era convinta che una vita di questo tipo avrebbe potuto averla solo scegliendo per sé qualcuno ricco di una bellezza che forse in terra non esisteva ed ignaro di essere cotanto dono. Un po’ un folle che avrebbe pensato a loro come fossero stati la bella e la bestia, senza essere proprio capace di vedere che la bellezza non era certamente in lei.
Mentre faceva questa riflessione, un giorno per strada, le venne in mente una scena storica (datata 1983) de Il Ritorno dello Jedi, terzo film della trilogia originale di Star Wars, in cui troneggiava Jabba the Hut, un marziano che ricordava un lumacone senza arti inferiori ed una lunga coda, insieme alla bellissima principessa Leila Organa che per la prima volta vedeva svelato il suo lato sexy, in un bikini metallico; all’epoca era diventata un’icona nerd, ma nel caso di specie era una scena che un po’ incarnava quel pensiero, un po’ lo sbeffeggiava prendendolo per i fondelli.
Era a piedi, posò gli occhi sul marciapiedi e trovò, abbandonata sul cemento, una collanina che sembrava essere stata fatta su misura per lei, scelta con dovizia perché diventasse sua.
Si fermò un attimo, piovigginava, era il giorno del suo compleanno e lei era appena uscita dal suo ufficio: si chinò a raccogliere il monile, le piacque credere che l’inesistente principe dei suoi sogni, da un mondo altro, le avesse fatto quel regalo. Lo mise al collo e non se ne separò più. La sua vita continuò a non avere niente a che fare con i suoi più profondi desideri, ma quella catenina continuò ad essere il filo sottile che la legava alle sue stesse idee. Da lì, a finché avrebbe avuto vita, una corda quasi invisibile l’avrebbe tenuta unita a quel sogno, quello e nessun altro, poiché non avrebbe più potuto rinunciarci, per quanto impossibile doveva ammettere sembrasse.
E dall’interno di un negozio specializzato nella vendita di the e tisane, mentre la pioggia si infittiva e rendeva più lucida la pavimentazione stradale aumentando le gradazioni del giallo, dell’arancione e del verde riflessi e provenienti dal riverbero della luce dei lampioni ormai accesi e del semaforo lì vicino, arrivarono quasi improvvise le note di un malinconico Luigi Tenco, come la dedica di qualcuno che le stava facendo giungere da una terza luna: vedrai, vedrai, vedrai che cambierà, forse non sarà domani, ma un bel giorno cambierà. Vedrai, vedrai, no non son finito sai, non so dirti come e quando, ma un bel giorno cambierà.
Laila[1], Leila.
***
[1] Laila, in Israele, notte. Qui utilizzato come diminuzione casereccia di Laila tov, l’augurio ebraico di buona notte.