«L’isolamento è l’esperienza di una perdita, mentre la solitudine è l’esperienza di una rinuncia. L’isolamento si subisce, nella solitudine si cerca qualcosa»
(Hans George Gadamer)
Le relazioni sociali in tempo di Coronavirus, come dire: paura, isolamento, diffidenza. Quando va bene.
Se va male, isteria, psicosi, follia collettiva.
Caro lettore, adorata lettrice,
forse non avremmo mai immaginato di vivere questo tempo. Qualcuno si è divertito a paragonarlo al XIV secolo: come allora, abbiamo due papi ed una epidemia…
Scherzi a parte, che poi qui nessuno scherza, non c’è dubbio che viviamo tempi tristi: non necessariamente nel senso di “malvagi”, ma anche e solo, si fa per dire, nel senso di “infelici, sconsolati, pieni di angoscia”.
Come dice Gadamer: non siamo semplicemente soli, siamo isolati e in autoisolamento. E sperimentiamo la nostra insufficienza. Un piccolo virus con la sua corona: e il mondo ipertecnologico del XXI secolo cade nel panico, le borse saltano, le scuole chiudono, la sanità arranca, nonostante le meravigliose energie che tanti uomini e donne, medici e infermieri, profondono senza risparmio per curare la vita degli infermi.
Ci sentiamo un po’ come sulla nave dei folli, quella del dipinto di Hieronymus Bosch: un assembramento informe di gente smarrita che vaga senza meta, sbattuta dalle onde. Siamo erranti, senza patria a casa nostra, senza la possibilità di gridare: «Terra! Terra!».
Non so quanti sappiano che Bosch non è stato il primo a immaginare un quadro simile: nel 1486, alle soglie del Rinascimento, Sebastian Brant scrive Das Narrenschiff, titolo latino: Stultifera navis, in italiano: La nave dei folli. Brant narra di 111 sprovveduti che vagano alla volta di Narragonia, il paese degli stolti, manco a dirlo, per arrivare in visita nel Paese della Cuccagna e terminare, immancabilmente, in un naufragio. Satira allegorica, quella di Brant, volta a fustigare i vizi del tempo – in particolare quelli sparsi a profusione da chi portava la chierica – ma che tanto sembra parlare anche dei nostri giorni.
In tempi più recenti, Michell Foucaut riprende il mito della nave dei folli nella sua Storia della follia nell’età classica, e racconta che, in passato e fino al Medioevo, quello del “carico insensato” lasciato in balia delle onde non era solo una metafora: era la realtà. I folli atterrivano, andavano allontanati, rimossi dalla vista delle “persone civili”. Caricati su una nave, spediti in mare aperto e chi s’è visto, s’è visto. E così sia.
Caro lettore, adorata lettrice,
davvero mi astengo da insistere con i parallelismi sul presente. Li stai già facendo tu, in autonomia.
Certo vien da sorridere, ma è un sorriso triste, al pensiero di come la storia si ripeta. E si prenda certe rivincite, sino a ieri impensabili. Certo, il riso diventa ancora più amaro al pensiero di chi, specie al Sud, fa ironia su un vecchio slogan – “Prima il Nord”, mi pare dicesse…
Infine, il riso si muta in espressione di sdegno davanti a chi ancora si illude che il virus possa far differenze tra settentrione e meridione, destra e sinistra, bianchi e gialli, ricchi e poveri. Sani, per oggi, e malati, ancora e solo per oggi.
Sai cosa? Isolati, ci sentiamo isolati. Magari ci sentissimo soli: staremmo ancora cercando qualcosa. Meglio ancora se cercassimo qualcuno.
Ritorno a Foucault: «Forse, un giorno, non sapremo più esattamente che cosa ha potuto essere la follia».
E chiudo con Biagi: «Cara Italia, perché giusto o sbagliato che sia questo è il mio paese con le sue grandi qualità ed i suoi grandi difetti».
I folli hanno abitato il mondo in ogni epoca storica. Ma non dei folli bisogna aver paura, ma degli stolti e dei sapienti ignoranti, degli opportunisti e dei vigliacchi perché sanno generare pericolose pandemie di pervicace ignoranza.
Quanto sono d’accordo con te, caro Antonio! Quanto consola la tua condivisione!
Wow, grazie.
Un caffè a regola d’arte ed insieme, insieme a regola d’arte.
Grazie di questa relazione.
Parole preziose da una preziosa persona. Grazie, Daniela.